Il Cerchio Celtico

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Risale al 1992 il romanzo di Björn Larsson Den Keltiska Ringen, la cui traduzione di K. De Marco Il cerchio Celtico è uscita nel 2011 da Iperborea, e di cui io leggo la seconda edizione del 2012. Non è uno di quei romanzi che invecchiano, perché è costruito con ingredienti ben solidi, che reggono l’urto del tempo e il passare delle mode, come lo sloop Rustica, la barca a vela del protagonista, lo svedese Ulf, regge la furia del vento e del Mare del Nord. Storia di mari e scogli, di porti e di passaggi difficili lungo le coste scozzesi nel pieno dell’inverno, con in aggiunta un’oscura cospirazione per l’indipendenza dei popoli celtici, non priva di agganci con quello che anche nei nostri giorni si agita nelle viscere dell’Europa. Aggiungici una donna misteriosa e inquietante, più due rapporti di amicizia — uno consolidato e un altro nascente e tragico — e il piatto è servito, con condimento di un pizzico di ironia e di magistero romanzesco.  Con vari fili che si intrecciano, e sono simboleggiati da tre imbarcazioni che si incrociano, si inseguono e si fuggono: il Rustica, il catamarano Sula del finlandese Pekka, e il nero peschereccio F154 su cui naviga l’ambiguo MacDuff. Chi non ama avventura e mare stia lontano da questo romanzo, che ne contiene una dose massiccia.

 

 

 

 

 

La vera storia del pirata Long John Silver

La vera storia del pirata Long John Silver è quella narrata da Björn Larsson in questo romanzo del 1995, che leggo ora nella traduzione di K. De Marco (18ª edizione, Iperborea 2012). Ricreazione del pirata di Stevenson, con evocazione di una coorte di personaggi dell’ Isola del tesoro come il capitano Flint e Jim Hawkins. Un racconto davvero robusto e gustoso, in cui la voce narrante è quella dello stesso Silver. E in Silver, con la sua individualistica ed inesausta brama di libertà e di vita piena, sicuramente l’autore proietta se stesso. Tuttavia, Silver è un personaggio ambiguo, molto ambiguo, ed è un personaggio tardo novecentesco o già post-millenniale. Il lettore di Larsson attraversa una marea di fatti cruenti e di azioni spietate in uno stato di grazia e di leggerezza, ma cogliendo sempre nello scrittore la piena consapevolezza dei meccanismi che reggono e regolano i rapporti tra gli umani. Compreso quello fondamentale, il meccanismo del capro espiatorio, di cui Silver, a sua volta ben consapevole di essere un nemico dell’umanità come tutti i pirati, svela il funzionamento a p. 334. Nel momento in cui sulla nave si determina una pericolosa tensione, con la ciurma in stato di depressione per una terribile bonaccia–una situazione che egli sa essere il preludio alla ricerca di una vittima sacrificale che potrebbe essere lui stesso, che è il quartiermastro–è Silver in persona a dirigere astutamente la scelta della massa su un altro membro dell’equipaggio.

«Bowman lanciò un grido raccapricciante, quando lo trascinarono in coperta e lo legarono. Gli diedero una morte lenta e dolorosa, che lo costrinse a pentirsi di essere in vita finché rimase vivo. Per quel che mi riguardava, anche una morte rapida e improvvisa sarebbe andata bene. Ma se l’avessero ucciso sul colpo, gli altri non si sarebbero mai tolti il suo veleno dal sangue. Così, invece, non si vedevano che espressioni felici e soddisfatte, una volta che gli squali ebbero fatto piazza pulita del nostro spirito maligno e di quello che, non più di un’ora prima, era ancora un essere umano vivo, anche se non uno dei migliori esemplari della specie. Ebbi da vari parole di ringraziamento. E forse erano anche meritate.
L’unico che non si lasciò abbagliare dalla mia abilità fu England. Mi guardò male per parecchie settimane, mentre gli altri avevano presto dimenticato che fosse mai esistito un essere umano chiamato Bowman. Non mi diedi la pena di spiegare a England che era indispensabile sacrificare un capro espiatorio, se volevamo rimanere un po’ più a lungo su questa terra. Quelli come lui, che, a sentir loro, sanno distinguere tra la vita e la morte, non capiscono che a volte bisogna scegliere l’una o l’altra.»

Il porto dei sogni incrociati

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Romanzo dal plot schematico, costruito quant’altri mai, Il porto dei sogni incrociati di Björn Larsson (1997, trad. it. di K. De Marco, Iperborea 10ª ed. 2013) mantiene tuttavia una sua leggerezza. Lo assimilerei ad un calice di prosecco, ricco di sfumature e ambiguità, con tante bollicine. Il capitano di una nave mercantile, l’occidentale-orientale Marcel, si muove tra un porto e l’altro, suscitando in chi lo incontra nei porti sogni e desideri differenti, come se egli fosse portatore di un’apertura, di un altrove ricco di significato rispetto alla povertà della vita concreta presente, alla solitudine radicale che i quattro personaggi di terraferma sperimentano. Ma la rinuncia ad ogni legame affettivo, ad ogni radicamento, che è la determinazione esistenziale di Marcel, fa sì che l’apertura che egli può donare sia solo nella consapevolezza della natura transitoria dell’esistenza umana, della sua assoluta immanenza, una apertura che può condurre al nulla o ad una modesta uscita dalla solitudine. La cifra del romanzo è un nichilismo sobrio, un placido consentire alle parole di Marcel: “Per me vuol dire che la vita è come la scia di una nave. Un attimo dopo il nostro passaggio, è come se non fossimo mai esistiti”. (p. 224)

Bisogno di libertà

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«La letteratura deve essere immaginazione per mettere in questione la lingua quanto la realtà. È la fantasia che rende gli uomini umani e fa della letteratura un esercizio di umanità. Troppa fantasia, però, ti rende folle, come Don Chisciotte o Emma Bovary. Troppo poca ti rende inumano.
La letteratura, come il vero viaggio d’avventura, deve essere un incontro con l’altro da cui non si esce indenni. Sia il lettore che lo scrittore devono mettersi nei panni altrui e rischiare di diventare altro, esattamente ciò che si rifiutano di fare i fanatici e gli integralisti di tutte le specie. Non può essere una fuga: fuggire significa comunque approdare da qualche parte, dove bisogna anche cercare di vivere. L’identità della letteratura non è basata né sul diritto del sangue né su quello della terra, ma su quello del cuore. » (pp. 197-198) Continua a leggere