Romanzo dal plot schematico, costruito quant’altri mai, Il porto dei sogni incrociati di Björn Larsson (1997, trad. it. di K. De Marco, Iperborea 10ª ed. 2013) mantiene tuttavia una sua leggerezza. Lo assimilerei ad un calice di prosecco, ricco di sfumature e ambiguità, con tante bollicine. Il capitano di una nave mercantile, l’occidentale-orientale Marcel, si muove tra un porto e l’altro, suscitando in chi lo incontra nei porti sogni e desideri differenti, come se egli fosse portatore di un’apertura, di un altrove ricco di significato rispetto alla povertà della vita concreta presente, alla solitudine radicale che i quattro personaggi di terraferma sperimentano. Ma la rinuncia ad ogni legame affettivo, ad ogni radicamento, che è la determinazione esistenziale di Marcel, fa sì che l’apertura che egli può donare sia solo nella consapevolezza della natura transitoria dell’esistenza umana, della sua assoluta immanenza, una apertura che può condurre al nulla o ad una modesta uscita dalla solitudine. La cifra del romanzo è un nichilismo sobrio, un placido consentire alle parole di Marcel: “Per me vuol dire che la vita è come la scia di una nave. Un attimo dopo il nostro passaggio, è come se non fossimo mai esistiti”. (p. 224)
