AUTISMO COME DONO? Così definisce Greta Thunberg in un suo post su Facebook il 2 febbraio la propria condizione: “L’Asperger non è una malattia, è un dono”. Anche questo può far capire quanto sia profonda la voragine che divide, nel campo dell’autismo, i soggetti ad alto e altissimo funzionamento intellettivo da quelli a basso funzionamento. Greta ha una diagnosi, è nello SPETTRO dell’autismo. Come mio figlio Guido, che non parla e non comprende il discorso, ha un autismo severo, ed è all’altro capo dello stesso SPETTRO. Greta sa che lei un giorno morirà, che tutti i viventi sono mortali, che l’intero pianeta è mortale. E’ intelligentissima, e sorride raramente, nelle foto appare quasi sempre cupa, forse per l’alta consapevolezza delle cose. Guido non sa che i viventi muoiono, non sa che esiste la morte, è quasi sempre sorridente. Per lui “cambiamento climatico” è solo un suono. Per me la parola AUTISMO significa ben poco.
Asperger
Asperger vs Averbale
Qualche anno fa mi telefonò un uomo sui cinquant’anni. Un ingegnere. Aveva trovato il numero del mio cellulare in internet, mi disse, dopo aver letto alcuni miei post sull’autismo. Mi raccontò di essere marito e padre di un ragazzo (del tutto normale), e di aver ricevuto da poco, in Inghilterra, dove il suo lavoro lo portava per lunghi periodi, la diagnosi di Asperger. Voleva solo parlarne un po’ con me, e mi avvisò però del fatto che avrebbe potuto non rendersi conto di annoiarmi con le sue digressioni: non era in grado di comprendere se i suoi interlocutori fossero interessati o meno agli argomenti che interessavano a lui. Ne era consapevole, perciò mi chiedeva, nell’eventualità, di farglielo presente. Conversammo amabilmente, e penso con grande utilità reciproca, per una mezzora abbondante. Gli raccontai a mia volta, ovviamente, anche di mio figlio Guido e della sua condizione di autistico a basso funzionamento cognitivo, iperattivo e averbale. Fu molto colpito dalla condizione di Guido, e mi confessò che dei soggetti come mio figlio lui non capiva assolutamente nulla. Mi resi conto in quel momento, e fu una evidenza solare, abbagliante, come se davanti ai miei occhi fosse esplosa una supernova, che io, normotipico con tratti autistici pari a zero, ero più vicino, condividendone molti più aspetti e caratteristiche, ad una persona con diagnosi di Asperger come il mio interlocutore telefonico, ovvero ad un umano collocato dentro lo Spettro dell’Autismo, di quanto quello fosse vicino ad un soggetto come Guido, collocato all’altro estremo dello Spettro. Io con l’ingegnere Asperger potevo realizzare ciò che caratterizza l’umanità nella sua essenza, lo scambio di segni che crea il discorso e si fonda sul linguaggio: ci potevamo raccontare storie, comunicare le nostre esperienze di vita: lui mi poteva narrare di suo figlio normotipico, io gli potevo parlare del mio Guido autistico LF. Ma mentre io capivo tutto quello che lui mi raccontava, lui di contro non poteva comprendere, per quanto si sforzasse, la natura della mia esperienza con Guido. Guido per lui era un alieno, come lo era e lo è per me. La domanda quindi è: perché? E la risposta è questa: l’ingegnere ed io eravamo entrambi abitanti della sfera del linguaggio, Guido invece a quella sfera è estraneo, del tutto estraneo, perché non ha mai pronunciato una sola parola. Allora compresi anche che non è tanto quello che si riferisce all’etichetta autismo, per cui l’ingegnere e Guido stanno entrambi nello Spettro, a costituire il problema di Guido e della sua famiglia. Cioè il problema per noi non è un autismo in sé, quella cosa lì, che viene appunta concepita quasi come una sostanza che si esprime in varie manifestazioni, stereotipie, difficoltà, ecc., mentre è solo una serie di accidenti. Perché, come ora è sempre più chiaro, certe forme di autismo possono anche conferire vantaggi adattivi, come nell’ambito dell’informatica è evidente. La disabilità più profonda, quella che compromette l’intera vita di Guido, e delle altre persone autistiche averbali, si esprime nell’estraneità totale al linguaggio, al logos umano, una estraneità che ricade su ogni aspetto della vita di mio figlio. Hic Rhodus hic salta.
NeuroTribù
Una prima nota sul libro di Steve Silberman NeuroTribes, uscito in Italia col titolo NeuroTribù nella traduzione di C. Mangione (Edizioni LSWR, Milano 2006) si può leggere qui. Il corposo libro di Silberman andrebbe letto in parallelo con l’altrettanto corposo In A Different Key di John Donvan e Caren Zucker (una nota qui). Entrambi sono scritti bene, hanno quel piglio narrativo che contraddistingue anche la divulgazione scientifica anglosassone, e condividono nella sostanza una lettura progressiva e scientifica della questione autismo. Il lavoro di Silberman, tuttavia, presenta una coloritura particolare, la cui origine e natura mi è parsa del tutto chiara solo quando stavo per chiudere il libro. Nei Ringraziamenti infatti si legge “Questo libro non sarebbe mai stato scritto senza l’incoraggiamento, il sostegno e la pazienza di mio marito Keith Karraker (…)”. Sulle prime ho pensato ad un errore, ma poi ho visto sul risvolto di copertina, sotto la foto del simpatico Silberman con la sua barbetta, “Vive a San Francisco con suo marito Keith”. E ho allora compreso come la visione di Silberman degli autistici come gruppo sociale emarginato e incompreso e sottoposto a vessazioni inenarrabili per secoli, e ora finalmente giunto a piena autocoscienza e a capacità di self advocacy e lotta per i diritti, questa visione di minoranza oppressa ma piena di valori e capacità di operare per il bene collettivo, debba molto alla storia del movimento gay. Ma anche a quella di tutte le minoranze: etniche, religiose, sessuali. Ed è anche evidente, e tutto il libro lo dimostra, a cominciare dal sottotitolo (The Legacy of Autism and the Future of Neurodiversity, che nella versione italiana diventa addirittura I talenti dell’autismo e il futuro della neurodiversità) che data la struttura dello Spettro dell’Autismo questa lotta riguarda la sua parte alta e autocosciente, mentre lo stesso dialogo tra questa componente e le famiglie di coloro che non dispongono di parola né di concetto si presenta impervia e spesso impossibile.
L’ottimismo che pervade il libro di Silberman è comprensibile, ma un qualsiasi genitore di persona autistica a basso funzionamento, e magari del tutto averbale e con grave ritardo mentale, fatica molto a condividerlo: le ricadute delle conquiste degli Aspies sull’oscuro futuro di suo figlio gli appaiono fantasmatiche, inconsistenti e illusorie.
In ogni caso, nonostante alcune riserve, il libro è senz’altro consigliabile a tutti coloro che vogliano conoscere la storia dell’autismo, a cominciare dalle intuizioni fondamentali di Hans Asperger e Leo Kanner, e anzi, addirittura (secondo la prassi invalsa di retrodiagnosi talvolta avventurose) da personaggi del passato, come il settecentesco inventore e scienziato Sir Henry Cavendish, dal quale inizia il racconto.
La tesi fondamentale di Silberman è che l’umanità sia un composto di vari tipi di mente, prodotto di neuro-diversità che dovrebbero tutte trovare spazio per poter esprimere le loro potenzialità (di cui Silberman offre un vasto saggio); anzi, per l’autore il mondo degli umani ha bisogno, e lo ha sempre avuto, di menti autistiche, le cui bizzarrie e problematiche varie sono il contorno di una pietanza sostanziosa: la capacità di vedere cose che i neurotipici non vedono e di scoprire procedure e tecniche cui le persone normali non arriverebbero mai (come nel campo dell’informatica). Ma il punto cruciale, l’hic Rhodus hic salta della questione è tutto qui: se il mondo ha bisogno di menti differenti, ha comunque bisogno di menti funzionanti. Se quella dell’inventore Cavendish o di un ingegnere informatico nello Spettro funziona in alcuni campi in modo eccezionale, con risultati sorprendenti e benefici per tutti, quella di un autistico con grave ritardo mentale può disfunzionare in tutti i campi. E a lui non si applicherà quella formula gratificante.
Una differenza interessante rispetto al testo parallelo di Donvan e Zucker si trova nella valutazione del lavoro di Hans Asperger. Mentre i primi sottolineavano la compromissione di costui col regime nazionalsocialista, Silberman tende ad assolverlo, e questa assoluzione è senza dubbio legata al fondamentale ruolo che viene attribuito allo studioso austriaco nello sviluppo dell’idea di autismo come continuum, come spettro, contrastante con quella di autismo come disturbo raro che Leo Kanner difese per tutta la vita. In ogni caso, di tutti coloro che svolsero un ruolo fondamentale nella questione dell’autismo, dallo stesso Kanner a Rimland e Lovaas, per non parlare di Bettelheim, Silberman espone luci e ombre, impegno generoso e meschinità: il quadro è variegato e avvincente come un romanzo.
Concludo questa nota con una citazione che riguarda la tesi centrale di Silberman:
Dove Asperger aveva colto l’inestricabile intrecciarsi dei fili conduttori del genio e della disabilità nella storia familiare dei pazienti, a testimonianza delle complesse radici genetiche della condizione e del “valore sociale di quel tipo di personalità”, come ebbe ad affermare, Kanner vide l’ombra della sinistra figura che nella cultura popolare sarebbe diventata la famigerata “madre frigorifero”.
Kanner era un osservatore clinico acuto e uno scrittore persuasivo, ma in questo caso i suoi errori di interpretazione del comportamento dei pazienti ebbero implicazioni di larga portata. Attribuendo ai genitori la colpa di avere senza volere provocato l’autismo dei loro bambini, rese la sindrome fonte di vergogna e stigma per le famiglie di tutto il mondo, spingendo per decenni la ricerca nella direzione sbagliata. (P. 171)
Autismo insignificante
Qualcuno ha affermato che autismo e Internet sono due realtà fortemente connesse. Non solo perché nella Silicon Valley sono numerosi i tecnici e gli ingegneri informatici che sono nello Spettro, come si usa dire, ma anche perché la consapevolezza mondiale dell’autismo non sarebbe quella che è, e forse semplicemente non sarebbe, senza il potente motore del Web, l’acceleratore dei processi mediante i quali le famiglie e i singoli hanno stretto legami, creato e sostenuto associazioni e movimenti d’opinione, difeso interessi (talvolta contraddittori) e combattuto battaglie spesso feroci: contro i pregiudizi, contro le discriminazioni, contro la politica insensibile e le istituzioni arretrate e disumane; ma anche a favore di metodi discutibili, di personaggi equivoci, di ciarlatani e di impostazioni pseudo-scientifiche. Poiché autismo si dice autismo anche in spagnolo, se si digita in Google autismo o l’anglo autism la marea di pagine, link e documenti vari che emerge è sconfinata, schiacciante, una dimostrazione che il termine autismo è pervasivo e, ad un’attenta analisi, utilizzato in una vasta gamma di significati, dei quali quello connesso alla sindrome classificata nel DSM e nell’ICD è il più presente, ma non l’unico.
Il significante autismo è oggi—questo è un mio chiodo fisso, perché a mio giudizio si tratta di un’evidenza cui non si attribuisce la rilevanza che le spetta—dilatato al punto di diventare fonte di ambiguità, incertezza, equivoco, e di produrre non autentica consapevolezza ma confusione, e infine seri problemi anche nella vita quotidiana: nell’informazione che circola e nella gestione dei gravi problemi delle famiglie che debbono sopportare il peso della convivenza con una persona con autismo.
Lo Spettro, infatti è immenso, smisurato. Se al suo interno vengono collocati mio figlio Guido, averbale e con grave ritardo mentale che compromette la sua capacità di eseguire i compiti più semplici e riduce al minimo la sua autonomia, e ugualmente un soggetto Asperger come il dott. Mario Rossi, che ha avuto una diagnosi tardiva, che lavora e ha due figli, allora uno non capisce più nulla. Perché indubbiamente Mario Rossi sul piano della realtà è molto più vicino a me neurotipico che a mio figlio autistico. Perché Mario Rossi e io possiamo parlare, discutere di vari argomenti tra cui l’autismo, delle prospettive dei nostri figli, di politica ecc., ma né io né lui possiamo far questo con mio figlio. Pure, Mario Rossi è nello Spettro, come Guido, e io no, io ne sono fuori. A buon diritto, sembra, Mario Rossi e Guido Brotto possono essere chiamati autistici, e io no…
Ma allora, io mi domando e dico, autismo significa qualcosa che possa essere compreso dall’opinione pubblica, o è diventato una notte dentro la quale tutte le vacche sono grigie?
Confessioni di un borghese
Autografia romanzata, ma non troppo, Confessioni di un borghese di Sándor Márai (trad. it. di M. D’Alessandro, Adelphi 2003) è un testo del 1934-35. L’autore lo scrive, per così dire, prematuramente, visto che il suo anno di nascita è il 1900. Diviso in due parti, di cui la più interessante e avvincente è l’infanzia-adolescenza in Ungheria, si può considerare sotto le specie di romanzo di formazione, che avviene attraverso una lunga serie di incontri con ambienti e personaggi molto vari e culturalmente differenti. Il libro narra fondamentalmente il maturarsi di una vocazione: quella di scrittore e scrittore ungherese che si sviluppa tra Berlino e Parigi negli anni successivi alla Grande Guerra. Nella vasta galleria umana del libro mi ha particolarmente colpito la descrizione accurata di Hanns Erich, un giovane tedesco con cui Márai tenta di stringere una impossibile amicizia. Teniamo presente che nel 1935 le categorie di autismo (nel significato oggi vigente) e di sindrome di Asperger sono ovviamente ignote. Riporto dalle pagine 301-305. Un pezzo interessante anche per gli psicologi, e per tutti coloro che ritengono che l’autismo sia un continuum, entro il quale non è semplice individuare salti qualitativi. Continua a leggere