ECATE DEL SONNO

ecate

Quale sibilla dirà per me nell’antro materno
le parole di bronzo di una legge che duri
o quale angelo mai verrà dal cielo feroce
con la notizia della fine eterna?

Non c’è risposta, ma la superficie è calma:
il movimento delle tue miriadi, Dio, se ci sei,
gioca col nulla, e in palio c’è soltanto
l’agonia del pensiero che ti cerca, e ancora,
in una nicchia scavata dal dolore, sembra
che resti un po’ di desiderio, male vivo anzi
già quasi morto.
Eppure – ahi! – voi venite a schiera,
o miei fantasmi della tenerezza,
più soave parlando nella sera.

Intorno in alto è un pianeta d’aria
dove miriadi vanno in strade d’oro.
Sotto, la selva che ci tiene fermi
e condensa la nebbia del dolore.
Il sonno resta tra inferno e paradiso,
nell’attesa del grande vicino,
nel desiderio dell’eterno riso.

Tu sussurri, signora di sgomento,
epifania di un popolo di sogni
che parlano dell’ora che non viene.

Amore delle trepide frontiere,
signore dei sentieri senza sbocco,
si alimenta del sonno ove è fuggita
come una ninfa tepida e serena
navigatrice delle vie soavi
quella che è sogno, in sé troppo piena.

Tu nel tepore della luminosa
notte d’estate stendi la tua lunga
ala perversa della cruda e sola
mia fede, e al sogno mente,
santa compagna delle tue rapine,
l’algida mente.

Tacciono tutte le stirpi degli alati
figli del sonno nella notte quieta.
Guardano solo con occhi spalancati
me passeggero sulla terra vuota.

L’immagine è un disegno su carta di Giuseppe Ghedina (1825 – 1896).

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