A Child from the Village

qutb17La vita e l’opera dell’egiziano Sayyd Qutb (1906 – 1966), uno dei maestri di pensiero dell’islamismo radicale dei Fratelli Musulmani, dovrebbe essere meglio conosciuta, o semplicemente conosciuta, da tutti coloro che parlano di Islam e islamismo radicale senza conoscere l’oggetto. In realtà A Child from the Village (a cura di William Shepard, Syracuse University Press 2004) Qutb lo scrisse da giovane, prima della sua conversione all’islamismo, quando era un militante progressista e nazionalista. Ma è proprio per questo che la sua lettura è importante: leggendolo tu capisci che un islamista non è un alieno, è un uomo come te. È un libro eccezionale, che dipinge un quadro di estremo interesse della vita nei villaggi contadini di inizio Novecento: una vita che non si distaccava di molto da quella che gli abitanti delle sponde del Nilo avevano condotto al tempo dei Faraoni. Quella vita, già in corso di forte cambiamento al tempo in cui Qutb scrive, è rievocata lucidamente, nei suoi aspetti anche minimi, senza alcun alone di rimpianto. La gente che Qutb ci fa conoscere ha con la religione un rapporto che non è molto lontano, in fondo, da quello tradizionale della grande maggioranza dei cattolici: i contadini venerano il Corano, e rispettano sommamente e stimano coloro che lo conoscono a memoria, ma i più ne hanno una conoscenza scarsa e superficiale, e prevale un atteggiamento superstizioso: il culto di reliquie e tombe di santi, la fede nei miracoli di santi e santoni, nella magia, nel soprannaturale presente ad ogni angolo. La vita nei villaggi è dura, e in particolare dura è quella delle donne. Ed è singolare che il libro di Qutb — alla cui conversione all’islamismo avrebbe concorso non poco il suo rifiuto di quella emancipazione femminile e di quella promiscuità tra i sessi che era destinato a conoscere di lì a poco in America — si concluda con un sentimento di pena per le misere condizioni di vita delle donne dei villaggi.

Per molte famiglie benestanti del paese la ricchezza era limitata, perché di generazione in generazione l’eredità veniva suddivisa, e nel giro di tre o quattro successioni svaniva, a meno che non si verificasse un inatteso colpo di fortuna. Una buona famiglia poteva quindi ritrovarsi in difficoltà finanziarie, e talvolta in estrema povertà, mentre dimore un tempo abitate e piene di vita potevano trasformarsi in melanconiche rovine. La memoria di queste cose persisteva nell’anima di ciascuno, e in particolare tra le donne, e così l’afflizione dominava le case e la tristezza le chiudeva, a meno che non iniziasse ad albeggiare una nuova speranza. In campagna il lutto è lungo e protratto perché là il tempo si muove con passi lenti e misurati. La morte, che assale un membro della famiglia dopo l’altro, proietta costantemente una spessa ombra nera, annidandosi in ogni cuore e apparendo in ogni gesto. (…) Il tasso di mortalità in campagna è alto, come lo è quello della natalità che lo compensa. Ma ciascuna morte è una memoria duratura nel cuore della madre, della sposa o della sorella, una memoria che ad ogni altro decesso e funerale continua a emanare cordoglio. Allora la donna si rifugia nella lamentazione triste e melanconica.
Quando gli uomini sono nei campi, possono dimenticare. La luce del sole che brilla riempie le loro anime e le rischiara, e i semi che germinano nella terra nera spingono la speranza a crescere nelle loro anime perfino quando nella loro profonda semplicità essi non la possono pienamente percepire. Ma le donne, che generalmente non lasciano le case — tranne le poverissime che nell’Alto Egitto in rare occasioni si recano nei campi — , queste donne non hanno nulla che possa far dimenticare i loro dolori. Le case sono oscure e le loro stanze buie, specialmente quando scende la notte e le case sono illuminate solo da quelle fioche, piccole lampade a kerosene, che spandono la loro debole, pallida luce sulle pareti buie, così che le ombre delle persone danzano su di esse come spettri, e un sentimento tetro di angoscia e tristezza grava su ogni casa e sui suoi abitanti.
(pp. 130 – 131)

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