Terzo romanzo di un ciclo storico-narrativo sulla New York dell’ultimo secolo, Ota Benga di Antonio Monda (Mondadori 2015) tocca più di un tema: dalla questione femminile, incarnata nella protagonista narratrice (una ragazza di origine greca colta e inquieta) a quella razziale (c’è una comunità nera che inizia a prendere coscienza di sé, e c’è una cultura razzista che si esprime al massimo livello nel testo di Madison Grant Scomparsa di una grande razza), al tema della differenza culturale radicale, espressa dal pigmeo Ota Benga e dal vecchio guerriero apache Geronimo. L’intreccio funziona bene, e personaggi d’invenzione e personaggi reali convivono altrettanto bene. Il clima culturale dell’epoca è ben rappresentato da un evento centrale nella narrazione di Monda: l’esposizione al pubblico, avvenuta nel 1904, del pigmeo Ota Benga in una gabbia insieme a due scimmie, intesa come lampante dimostrazione della verità delle teorie darwiniane: quell’essere umano, con una cultura e una storia personale, che aveva perduto moglie e figli in Africa durante una razzia, secondo i teorici della razza andava compreso come un anello mancante nella catena evolutiva, un semibestiale uomo-scimmia. Sobria e non incline ai facili sentimentalismi, la scrittura di Monda porta alla luce un passato molto vicino, dal quale non tutti sono ancora totalmente staccati.
