Il cardellino di Donna Tartt esce ora in Italia da Rizzoli, dopo essere uscito negli Stati Uniti nell’ottobre 2013. Diffidente delle traduzioni affrettate, data anche la mole dell’opera e il suo spessore linguistico e narrativo, l’ho letta nella lingua originale, The Goldfinch. A cinquant’anni, la Tartt ha scritto solo tre romanzi, e questo è il frutto di una elaborazione lunghissima. Il lavoro sulla struttura e sulla composizione di ogni paragrafo, dal lessico alla grammatica, traspare in modo evidente. Un libro che richiederebbe un traduttore geniale, e un lavoro di anni per una versione italiana accettabile: su questo non aggiungo altro. La scrittrice ha più volte dichiarato che i suoi modelli sono alti: nientemeno che Dickens e Dostoevskij: la freccia deve essere scagliata verso il sole perché vada più lontano. I temi dell’opera, che si intrecciano fra loro fin dall’inizio, sono quelli fondamentali della condizione umana: anzitutto la sventura, che colpisce il giovane protagonista quando, ragazzino, accompagna la madre amatissima ad una mostra di quadri, tra i quali il piccolo meraviglioso Cardellino di Fabritius, e un mostruoso attentato terroristico, una devastante esplosione, la uccide. Al tema della sventura è associato quello della sorte, del caso o del fato, e dell’interpretazione degli eventi. Il ragazzo, il protagonista, che ventiseienne è la voce narrante della storia, ha un nome per eccellenza teoforico, quello di Theo(dor). Egli nel corso della vicenda che ci racconta (possiamo sospettare che menta? No. Ma possiamo dubitare che le cose siano andate esattamente come lui le presenta? Forse, e questo per me è il punto maggiormente problematico, che riguarda per principio ogni io narrante) compie e non-compie atti decisivi. Il primo per ordine di importanza è quello che avviene nel corso della catastrofe iniziale: tra le rovine si porta via il quadro di Fabritius, il Cardellino, e lo terrà nascosto per anni. Sul tema dell’amore per la giovane musicista Pippa, dell’amicizia con l’ucraino apolide disadattato, alcoolizzato e gangster Boris, e sul rapporto con l’antiquario Hobie si potrebbe scrivere molto, così come su vari personaggi di secondo e terzo piano, e sulle polarità e reazioni chimiche che si intersecano e si determinano di passo in passo, a cominciare dal rapporto col padre, giocatore d’azzardo. Polarità che sono anche di luoghi, e di geografie: dalla New York intellettuale ai vuoti spazi di Las Vegas, ai canali di Amsterdam che descrivono cerchi (infernali?). E ovunque sono i temi della bellezza e dell’arte, della verità e della falsificazione. È un romanzo poderoso, con personaggi disegnati con arte, e la maturità di scrittrice di Donna Tartt mi pare completa e mirabile. Infine il lettore rimane spiritualmente arricchito e inquietato, e gli resta nella mente la visione di quel cardellino, il deus ex machina della vicenda: un animaletto che non è in gabbia, sembrerebbe libero, ma al quale una sottile piccola catena legata ad una zampina non consente di spiccare il volo.

Lessi Dio di illusioni quando uscì nel ’92, e non mi convinse, ma mi fido di Fabio Brotto, e perciò concederò a Donna Tartt un’altra chance.
L’ha ribloggato su L'arme, gli amori.