Un consiglio di lettura

di Eros Barone

L’inizio dell’estate è, al solito, il momento più propizio per elargire consigli di lettura. Così, anch’io mi permetto di consigliare un libro che, se forse renderà l’uso del tempo libero un po’ più impegnativo di quanto in genere esso non sia, ricambierà ampiamente, sia sul piano conoscitivo che su quello stilistico, lo sforzo speso nell’applicazione ad un testo denso e articolato. Segnalo, inoltre, a chi decida di intraprenderne la lettura, che la parte fondamentale di questo saggio filosofico è la seconda.

 Perché ritengo opportuno svolgere quest’opera di propaganda intellettuale? La risposta è evidente: da quando l’ideologia della crisi e della fine delle ideologie, tematizzata a suo tempo in sede filosofica come ‘crisi della ragione’, si è configurata dapprima come il veicolo, neanche tanto mascherato, dell’ideologia della crisi e della fine del marxismo e, successivamente, dell’avvento del ‘pensiero unico’ (liberista e ultracapitalista) e del suo omologo filosofico rappresentato dal ‘pensiero debole’ (cioè subalterno), Lukács è diventato per i corifei dell’irrazionalismo contemporaneo, ivi compresi non pochi e non mediocri intellettuali ‘di sinistra’, il bersaglio da colpire e distruggere. Sennonché, fallito il tentativo di contrapporre il giovane al vecchio Lukács, così come era fallito, ad un livello più alto, il tentativo di contrapporre il giovane Marx al Marx maturo, sui fondamentali contributi del filosofo ungherese è sceso il silenzio. A tale silenzio ha fatto puntualmente riscontro, e non poteva essere diversamente nel clima termidoriano post-’89, la rinascita di tutti i “distruttori della ragione” dell’Ottocento e del Novecento (fra i quali vanno ricordati, in particolare, Nietzsche e Heidegger), che Lukács aveva combattuto in quel volume, ancor oggi imprescindibile, intitolato “La distruzione della ragione” e sottotitolato “Storia dell’irrazionalismo da Schelling a Hitler”. Ecco perché al centro di questo consiglio di lettura vi è, in buona sostanza, quel rilancio della ragione dialettica la cui necessità è imposta, per il proletariato, gli intellettuali e le forze progressive, da una fase storica nella quale è dato assistere all’estrema acutizzazione delle contraddizioni di un capitalismo sempre più impazzito: contraddizioni messe a nudo dalle molteplici, ma interconnesse, manifestazioni in cui si esprime il fallimento dell’attuale sistema di produzione, scambio, consumo e distribuzione (dalla crisi economico-finanziaria a quella energetica e ambientale, dalla disoccupazione e dalla precarietà allo sfruttamento selvaggio, dalla crisi filosofica e culturale a quella morale e spirituale). Va da sé che il fallimento storico del sistema capitalistico nasce dalla incapacità, che questo sistema rivela in modo sempre più palese, di dare risposte soddisfacenti ai bisogni della maggioranza della società.

 Tutto ciò non significa, naturalmente, che le soluzioni indicate da Lukács siano sempre le risposte decisive che il materialismo storico è in grado di offrire alle questioni della nostra epoca. Ma non si può negare che il merito storico di questo filosofo sia stato proprio quello di aver compiuto uno dei tentativi più organici e radicali per dare al marxismo uno sviluppo autenticamente scientifico e per giungere, poggiando su una solida base teoretica e metodologica, a formulare in modo esatto e comprensivo le alternative fondamentali del nostro tempo. Leggere l’“Ontologia dell’essere sociale” così come l’“Estetica”, definibili, se mi si passa il termine, come due ‘opere-mondo’, significa quindi confrontarsi, non con un marxismo immaginario e di comodo come quello che si foggia la corrente polemica antimarxista, ma con le più incisive posizioni del materialismo dialettico e storico contemporaneo, con quelle posizioni che meglio corrispondono alla portata epocale della crisi che tutti siamo chiamati ad affrontare, e che è la crisi del lavoro, della cultura e della storia umana, nelle sue radici più profonde e costitutive.

 Ancora un’avvertenza che può essere un utile viatico per chi si accinga alla lettura delle pagine lukacsiane: non si chieda a questo autore ciò che esso, programmaticamente, non può e non vuole dare, ossia quelle seduzioni e suggestioni di carattere estetizzante, oracolare e soggettivistico che, in questi ultimi anni, hanno fatto della filosofia una merce di facile, approssimativo e indiscriminato consumo. La prosa di questo filosofo, che è figlio e, insieme, padre della più avanzata cultura europea e mondiale del Novecento, si trova agli antipodi rispetto a tali stilemi. È una prosa che modella il campo dell’oggettività storica definendola nelle sue forme razionali e dialettiche; è una prosa che, in virtù del rigore concettuale e sistematico che la innerva, risulta chiara anche quando le questioni affrontate sono ostiche e complesse. In questo senso, come Lukács afferma all’inizio di quella sezione determinante dell’“Ontologia” che è dedicata alla categoria del ‘Lavoro’, e che apre la seconda parte dell’opera, ogni «risposta corretta ha, a prima vista, un apparente carattere di banalità, pare sempre d’aver a che fare con una sorta di uovo di Colombo». Orbene, nei nostri anni difficili, se non cupi, delle uova di Colombo vi è un bisogno estremo e una fortissima richiesta. Ma quando la filosofia più avanzata si dimostra capace di riflettere nella ragione, con superiore coerenza, ciò che gli uomini già fanno e pensano pur senza averne un’adeguata consapevolezza, quando questa filosofia indica la soluzione come se fosse un banale “uovo di Colombo” e si rende accessibile al buon senso degli uomini, ciò accade perché all’ordine del giorno, piaccia o non piaccia, si voglia o non si voglia, la storia ha posto l’esigenza irreprimibile e ineludibile di una svolta decisiva nelle forme di relazione e di organizzazione che stanno alla base della società esistente.

 

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