Oggi va di moda, tra i pescatori dilettanti, la pesca no kill, che comporta la non uccisione dei pesci e impone la loro liberazione in acqua (immediata o al termine della giornata di pesca). Apparentemente, questa pratica risponde ad un nobile intento, quello di rispettare l’ambiente e l’equilibrio naturale. Di fatto, è solo un’espressione della smisuratezza contemporanea, e della rottura di quell’equilibrio. I pescatori no kill appaiono iper-tecnologici nelle loro attrezzature (si arriva alle assurdità del carp-fishing, la pesca della carpa con liberazione finale della stessa, dopo che è stata pesata e fotografata: si usano speciali tappetini per far scivolare in acqua l’animale senza traumi, si spera di poterlo ripescare un numero potenzialmente illimitato di volte). Naturalmente, questi pescatori-animalisti non si pongono il problema di quanti animali muoiano inutilmente per questa pratica, a loro basta pescarne per tutta la giornata, e se poi tra venti o trenta cavedani rimessi in acqua due o tre muoiono, magari dopo qualche tempo, per lesioni interne, questo non importa. Mentre io, che mi limito a pescare quello che posso consumare, e lego strettamente pesca e cucina, dovrei sentirmi un quasi-criminale. Ma io, quando ho realizzato un bottino sufficiente, smetto, loro no. Perché la loro, quella dei no-killers, è una attività no-limits. Puramente e semplicemente smisuratezza, ansia di record, di quantità. Tra l’altro, molti pesci d’acqua dolce vengono ributtati in acqua, spesso mezzi morti, col pretesto che non sarebbero buoni da mangiare. Invece, basta un po’ d’arte. Triotti, pighi e gardon, ad esempio, squamati e aperti come sardelle, togliendo loro la spina centrale con le lische, impanati o passati nella farina di grano duro, e quindi messi per qualche minuto in una padella con un dito d’olio d’oliva caldissimo, rigirati e salati, serviti caldi con una buona insalatina, sono ottimi. Idem per cavedani e breme sfilettati e sottoposti allo stesso trattamento. Provare per credere. La scoperta che pesci umili e presenti nei fiumi in grandi quantità possono costituire una piacevole pietanza è gratificante. Come lo è veder crescere gli ortaggi piantati con le proprie mani e mangiare una frittata con zucchine del proprio orto.

Sì, una pesca senza sprechi e legata alla cucina è buona anche da pensare.
Sono pienamente d’accordo: è da anni che vedo, in televisione, questa barbarie travestita da moralismo, questa strizzatina d’occhio alle ragioni ecologiche, questa prassi del politicamente corretto anche in acqua. Io sono stato un pescasub da trenta metri in apnea e ho fatto sempre una pesca selettiva. Per me pescare significava mangiare o fare mangiare a qualcuno (parenti, amici) qualcosa di eccellente. Ho sempre ammazzato immediatamente il pesce sparato, perché dargli una sofferenza inutile, nell’indifferenza, è da subumani. Questo principio vale, ovviamente, per ogni tipo di pesca. Quello che alcuni trovano divertente, catturare un pesce e poi rilasciarlo, per me è un gioco da matti. La pesca è un’attività seria, non un gioco. Qui in Sicilia, nello stretto di Messina, quando c’è la passa dei pescespada, sul pesce arpionato i pescatori fanno la cosiddetta “cardata da cruci”: con le unghie, incidono sulle branchie una croce, che sacralizza la morte. Inserire un simbolo altamente significativo vuol dire offrire un senso a quella uccisione, a suggello di un evento naturale, di per sé doloroso e cruento. La natura, lo sappiamo, è terribile, e ci siamo in mezzo. Mangiare è naturale, predare è naturale, ma farne un gioco sportivo è inaccettabile.
Poi, c’è anche lo snobismo, l’ostentazione mimetica della potenza davanti allo sguardo del terzo, che ti fa rilasciare il pesce di 5 chili per dimostrare che si è in grado di pescarne uno più grande. Questo è un atteggiamento persino offensivo, verso il pesce e verso lo sguardo dell’altro. Anni fra, un mio amico che ha manie di grandezza, quando catturammo un dentice di 5 chili su una secca, con il vertical, ci provò a propormi un rilascio. Lo fulminai e tornammo a terra.
In effetti penso che ci sia proprio “l’ostentazione mimetica della potenza”. Un pescatore che passa la giornata sul fiume catturando un pesce dopo l’altro, e a sera ne rilascia 20 chili, anche se pensa di compiere un atto sportivo puramente laico, sfiora il sacro, e ne assorbe il miasma.
questa mattina, mentre stiravo, ho visto un documentario sul pesce serpente, un pesce carnivoro assassino…mi ha molto impressionato la scena dove veniva tenuto in un aquario dove venivano buttati pesciolini rossi che “l’occhio di bue” (viene definito anche così per una macchia sulla pelle) azzannava rapidamente spaccandoli in due e lasciandoli morire così….

viene da chiedersi perchè anche la scienza non riesce a dare una risposta a tanta vioelenza….non è solo la fame di cibo che li spinge ad ammazzare così
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Bisognerebbe vedere qual è il comportamento di quel pesce in natura. Gli animali possono uccidere anche per motivi non alimentari, ma si può sempre trovare una motivazione. Nel caso degli animali non parlerei di violenza, semmai di ferocia (ferae sono gli animali selvaggi).