C’è un problema di fondo nell’acuto e ricchissimo libro di Fabio Vander sulla dialettica hegeliana Essere e non-essere. La scienza della Logica e i suoi critici (Mimesis 2009): quello del concetto di rivoluzione. Nella Introduzione Vander chiarisce immediatamente che intende la dialettica “come ragione dell’essere dell’ente ovvero come possibilità della contraddizione come fondamento” (p.10). Ciò non sorprende il lettore del precedente Critica della filosofia italiana contemporanea. Per Vander, il problema della Modernità non è l’ oblio della differenza ontologica, ma l’ oblio della differenza dialettica (p.13). In sostanza, secondo Vander l’autentica natura della dialettica hegeliana è stata mistificata dalla filosofia degli ultimi due secoli, che l’ha recepita e criticata come astratta e separata dal reale, proprio mentre tutte le principali filosofie, compresa quella di Marx e dei suoi epigoni, si volgevano in ontologie. Mentre Vander ritiene che in Hegel l’idealismo non sia affatto la costituzione della realtà da parte del pensiero (idea che offre il fianco alla critica cattolica, marxista ecc.) ma una visione per cui “il pensiero effettivamente costituisca il suo ‘oggetto’, ma solo in quanto questo in sé sia già costituito dialetticamente, sicché in verità il pensiero non fa che svelare questa natura con una indefessa critica del pensiero astratto” (p. 32). L’unica e sola dialettica autentica per Vander è quella hegeliana. Rifondare la dialettica contro le ontologie-ideologie dominanti significa ritornare ad Hegel qual è veramente, significa restaurare l’autentica dialettica hegeliana.
Il nodo concettuale fondamentale di questo testo vanderiano emerge con chiarezza da questa affermazione a p. 37: “Un punto fermo di valore generale è stabilito: nessun formalismo o logicismo in Hegel, nessuna ‘metafisica razionalista’; il pensiero non ‘inventa’ niente, vede semmai oltre la semplice apparenza e insegna a coglierne la verità, che però è la relatività. E in questo modo è tenuta aperta la possibilità del cambiamento”. Ora, è qui evidente, e viene confermato dalla lettura delle pagine seguenti, che per Vander il cambiamento è la rivoluzione. Che cosa essa sia si fa un po’ fatica a cogliere, ma parrebbe di intuire che per Vander un barbaglio se ne possa intravedere nell’ultimo Lenin e nella prima fase della Rivoluzione Russa (poi stroncato, secondo l’autore, dall’imporsi dell’ontologismo staliniano). Ma se la verità oltre la semplice apparenza è la relatività di tutto, i casi sono due: o il pensiero pone che questa relatività sussista di per sé, anche se non pensata come tale, oppure pone che essa sussista solo in quanto pensata. Nel primo caso rientreremmo nei confini di una sapienza immemoriale (che “tutto è relativo tranne la relatività stessa” è detto da Leopardi nello Zibaldone), nel secondo in quelli di un idealismo volgare, per il quale il pensiero crea tutto, e la realtà esiste solo in quanto pensata. Ma l’idealismo hegeliano, che Vander sostiene con una argomentazione di grande coerenza e rigore, non è di questo tipo. Il punto in cui viene esplicato meglio è, a mio giudizio, nel capitolo Contraddizione e possibilità del reale (p. 66), che si conclude così: “Non si tratta di dire che senza l’uomo il mondo non esiste o che l’uomo ‘inventa’ il mondo, che si fa pretenzioso Demiurgo (come secondo troppi critici – atei o cattolici – dell’idealismo), ma che ciò che ci circonda non esiste come mondo, ma solo come ‘semplice determinazione sensibile, intuizione’ finché non viene rielaborata concettualmente e resa insieme intelligibile, coerente, manipolabile, modificabile. Questo intendevamo all’inizio […] per ‘potere costituente’ del pensiero”. (p. 71) In ogni caso, è evidente che per Vander la possibilità del cambiamento (rivoluzione) si dà solo se il pensiero vede, al di là dell’apparenza immediata (e delle fossilizzazioni del pensiero astratto e delle ontologie), la relatività di tutto. Quindi la rivoluzione sarebbe anzitutto un fatto del pensiero. Ma la nottola di Minerva inizia a volare quando scende il crepuscolo…

Ritornare a Hegel
Il merito del saggio di Fabio Vander, “Essere e non-essere. La Scienza della Logica e i suoi critici”, opportunamente segnalato e acutamente commentato da Fabio Brotto, è quello di riproporre la categoria della ‘rivoluzione’ come categoria teoretica e di indicare nel pensiero del filosofo di Stoccarda la sua più rigorosa fondazione. Che una siffatta operazione non sia un esercizio interpretativo di carattere meramente filologico, destinato quindi a inscriversi nella tradizionale problematica del rapporto di Marx con Hegel, croce e delizia della marxologia, ma costituisca invece un punto di partenza di valore fondamentale e di portata fondativa anche per la formulazione di un programma di ricostruzione del materialismo dialettico e storico, emerge con chiarezza se si considera che Marx ha assunto da Hegel il meccanismo logico della dialettica (assunzione che Lenin ha approfondito nel corso della sua lettura di Hegel, riferendosi in modo particolare alla “Scienza della logica”), ma in termini completamente diversi da quelli che uno dei luoghi comuni più triti della marxologia presume di poter definire mediante la metafora del “rovesciamento” della dialettica hegeliana. A questo proposito, osservo ‘per incidens’ che il giudizio sulla ‘rinascita idealistica’ del primo Novecento, rinascita che vide accomunati Lukács e Gramsci, non può non essere negativo; e va detto parimenti che resta un merito di Lenin non averla condivisa.
Non concordo, invece, con la tesi anti-ontologica esposta da Vander, perché ritengo che i tentativi oggi esplicati in direzione di un recupero critico dell’eredità hegeliana siano tanto più positivi quanto più essi tendono, come attesta l’opera del tardo Lukács, a fondare materialisticamente un’ontologia dell’essere sociale che restituisca al pensare e all’agire umano un carattere concreto, cioè un terreno, un movente, un senso ed un fine, tali da fare di quelle determinazioni oggetti di conoscenza, di scelta e di previsione. L’assioma scolastico, secondo cui “operari sequitur esse”, torna in un certo senso di attualità, anche se è chiaro che (nei termini dell’ontologia lukacsiana) la struttura del reale viene individuata come un complesso contraddittorio, correlato alla dinamica conflittuale dei modi di produzione e alla scansione specifica del tempo storico della presente società. La rottura con il soggettivismo, e con il relativismo che gli è intimamente connesso (quale che ne sia il tipo: idealistico, epistemologico, pragmatistico ecc.), è pertanto molto netta, così come molto netta e del tutto conseguente è la riaffermazione che non è il movimento a fondare le prospettive, ma sono le prospettive a fondare (materialisticamente) il movimento.
Non a caso, fedele alla lezione di Marx reinterpretata con le “lenti di Hegel”, Lukács sviluppa, negli ultimi anni della sua lunga attività, un recupero del dato dell’oggettività, che è forse il più grande risultato del suo pensiero. E però l’aspetto che oggi appare più significativo non è tanto il condizionamento che l’eredità hegeliana ha esercitato sulla sua riflessione facendo sì che l’elemento della negazione, presente e decisivo nel rapporto di Marx con Hegel, si diluisse e quasi svanisse nell’aspetto della continuità, quanto i ‘modi di impiego’ di quella eredità, che nell’ultimo Lukács (quello dell’”Estetica” e dell’”Ontologia dell’essere sociale”), il più maturo e il più grande, trovano una sintesi impressionante per vigore sistematico ed acutezza teoretica. Dalle premesse or ora poste consegue che l’esigenza di affrontare l’analisi della società in termini complessivi non può essere soddisfatta mediante il ricorso alla categoria di ‘totalità’ di ascendenza hegeliana, perché con il ricorso ad una siffatta categoria viene abbandonato un caposaldo del marxismo come il rapporto tra base economica, sovrastrutture e prassi, e la definizione marxiana della ‘totalità’ non si distingue più da quella hegeliana. Al contrario, in coerenza con l’insegnamento che si ricava dall’ampia e approfondita disàmina che Vander svolge sull’apparato teorico hegeliano, la nozione corretta di ‘totalità’ va coniugata con la nozione dialettica di ‘rivoluzione’, la quale, nella trasvalutazione operata da Marx, è l’esito coerente e rigoroso del punto di vista della produzione e riproduzione della vita materiale: un punto di vista che, escludendo sia il riduzionismo economicistico sia l’organicismo onnicomprensivo, apre alla soggettività storica lo spazio morfologico e teleologico della trasformazione sociale e della emancipazione umana.
Eros Barone