Il ragazzo che credeva in Dio

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Se non riuscivo a spiegarle qual è il senso del dolore, almeno potevo condividere il suo. Era l’unica possibilità che mi era rimasta per uscire dal vicolo cieco in cui mi ero cacciato (p. 342). Forse questa è la frase in cui possiamo vedere concentrato il senso del romanzo di Vito Bruno Il ragazzo che credeva in Dio (Fazi 2009). La storia è quella di un prete, Carmine, che vive in una città allo sbando come Taranto, e che sta per compiere 50 anni. Come la città, anche lui non sa dove andrà a parare: da un lato Dio non gli dice più quello che gli diceva da ragazzo, ovvero il senso del divino per lui si è ridotto a niente, rimanendogli solo il rituale da un lato e  dall’altro l’impulso ad agire per il bene degli altri. E gli altri sono tanti: i parrocchiani e coloro che arrivano di lontano, i nuovi schiavi come la prostituta montenegrina Alena, che diviene il fulcro della narrazione e dell’azione. Quello di Bruno è a mio parere un romanzo medio, in tutti i sensi. Mi pare un tipico esempio di buon romanzo italiano contemporaneo, scritto con un certo mestiere, ma privo di vette e abissi. Naturalmente mi aspettavo un io narrante, e non manca: è quello dello stesso prete. Non mi aspettavo il passato remoto, ed ecco qui un passato prossimo (medio tra remoto e presente). Non mi aspettavo un prete che ragionasse da prete, e infatti il simpatico Carmine si narra come si narrerebbe uno che ha una certa familiarità esteriore coi preti in jeans e maglione, attivi nel sociale, ma non ne sa abbastanza da poter coglierne l’essenza dall’interno, in cui si colloca. Il divino qui è assente, in tutti i sensi, e sembrerebbe che Carmine di Scrittura, Salmi, teologia ecc. ne sapesse come un qualsiasi laico, ovvero quasi nulla. Un prete di cinquant’anni alle prese col venir meno delle proprie convinzioni più alte sperimenterebbe un dibattito interiore di ben altra lacerante profondità, e nutrito di riferimenti che in un romanzo rivolto ad un pubblico medio sarebbero difficili, ma la cui assenza toglie, in realtà, realismo alla rappresentazione. Se la questione qui è quella del male compiuto dagli uomini e del senso del dolore, ovvero la questione di Giobbe, diciamo che le penne di Bruno non appaiono atte al grande volo.
Su altri versanti le cose vanno meglio. Si può aggiungere che questo è un romanzo su Taranto (città devastata e dominata dal complesso mostruosamente grande dell’ILVA), sui Tarantini (che sono propensi a vivere nell’immediato presente, anche dal punto di vista dei soldi), e sulla figura paterna. Nel libro ci sono diversi padri: quello di Carmine, morto ma ben presente nel ricordo del figlio; quello del giovane Nino, capitano di navi oceaniche, sempre assente; quello di Pietro, gravemente malato; quello di Cataldo, che nel suo oscillare tra povera attività di pescatore e attraente ruolo nella malavita emergente si pone come cifra di ambigui sviluppi; e altri ancora. E ovviamente Carmine si pone come figura paterna, anche se incompiuta e lacerata. Su questo piano, il romanzo funziona.

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