Eric Gans, Chronicle of Love and Ressentiment 368
Quando mi sforzo di comprendere gli assillanti problemi di quella che si può ancora chiamare la civiltà occidentale, sono ricondotto al fatto inquietante che questi tendono a focalizzarsi sugli Ebrei.
Il recente conflitto a Gaza offre ancora un esempio della prontezza dell’intelligenza mediatica postmoderna a mettere in questione la legittimità di Israele. Due università della California del Sud, UCLA e UC Irvine, nelle scorse settimane hanno organizzato delle discussioni di esperti sul Medio Oriente che in realtà erano delle condanne unilaterali di Israele, compresa la negazione del suo diritto di esistere, salutata da slogan scanditi dalla folla.
In qualunque grado l’emancipazione degli Ebrei avvenuta nel XIX secolo sia stata centrale per la transizione dalla società europea medioevale a quella moderna, è impossibile negare che l’Olocausto sia stato l’evento chiave del tentativo, operato da quella stessa società nel XX secolo, di ritornare a quella che Voegelin chiama la “compattezza” rispetto agli effetti dissolventi del mercato. Ed è non meno evidente che l’oppressione nazista degli Ebrei ha fornito il modello per il nuovo modo di pensare, il pensiero vittimario o senso di colpa bianco, che definisce l’era postmoderna. Per l’intellettuale postmoderno, l’ombra di Auschwitz si stende su ogni relazione potenzialmente ineguale.
E tuttavia l’affermazione che Auschwitz fornisce una giustificazione sufficiente dello Stato di Israele provoca l’accusa di sollevare una contingenza storica al livello di una necessità ontologica. Il fenomeno anomalo della negazione dell’Olocausto testimonia la profondità del rifiuto di questa necessità. Assurda in termini storici, la negazione dell’Olocausto prende una posizione coerente contro l’idea “intollerabile” che lo sterminio sia stato il culmine logico del risentimento occidentale contro gli Ebrei, che giustifica pertanto la fondazione di uno Stato ebraico separato. Per i meno irrazionali, accusare Israele di crimini contro l’umanità sminuisce il significato unico dell’Olocausto: qualunque cosa i nazisti possano aver fatto contro gli Ebrei, gli Ebrei stanno facendo “la stessa cosa” ai Palestinesi.
Il ritornello familiare per cui gli Israeliani sono i nuovi nazisti non è una semplice iperbole. Esso illustra lo statuto paradigmatico dell’Olocausto e, volgendo il paradigma contro gli stessi Ebrei, ironicamente conferma la visione nazista della centralità degli Ebrei ed il risentimento che essi ispirano alla civiltà occidentale. La prospettiva originaria del Sionismo era quella di por fine all’eccezionale a-territorialità del popolo ebraico, nella speranza che Israele sarebbe diventato uno Stato e gli Ebrei un gruppo nazionale come tutti gli altri. Ma per quanti sforzi gli Ebrei abbiano fatti per stabilirsi in Palestina senza conflitto, la popolazione locale è stata costantemente spinta all’ostilità. Come l’incursione in Gaza del 2008-2009, la “Nakba” del 1948 iniziò con l’aggressione araba contro gli Ebrei, ma da allora è servita alla propaganda di coloro che intendono negare la legittimità dello Stato di Israele.
Per comprendere le radici di questa implacabile ostilità contro Israele, dobbiamo allontanarci non solo dall’indignazione fomentata dai media ma anche dal risentimento che essa ispira nei difensori di Israele. La generale scarsa inclinazione a vedere il problema nel suo contesto più ampio è parallela al fallimento del “processo di pace” tra Israele e i Palestinesi negli scorsi decenni. Questi fallimenti costanti riflettono qualcosa di più che l’intransigenza di entrambe le parti. Al di là delle preoccupazioni e dei desideri di ciascun gruppo sta un interesse di civiltà a lasciare il problema palestinese, e conseguentemente il problema ebraico, totalmente irrisolto. (1- continua)
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