Questo il risvolto di copertina del 1952:
Per anni ed anni, nei primi decenni del secolo, Carlo Felice Wolff ha percorso le valli delle Dolomiti, per farsi narrare dai pastori e dai contadini le leggende che un tempo fiorivano in tutta quella zona, e delle quali si va sempre più spegnendo il ricordo. Attingendo così alla fonte più viva e diretta, riaccostando poi e ricucendo i brani di narrazioni frammentarie, lo studioso poeta ha potuto ricostruire un complesso leggendario ricco di vicende e di sentimenti, intimamente e profondamente legato al paesaggio di quella regione e alla vita dei suoi abitanti.
La storia dei Nani che filano i raggi di luna per rivestirne le montagne scure e trasformarle nei monti pallidi; il roseto impietrato sul monte Catinaccio (il Rosengarten dei tedeschi) dall’incantesimo di re Laurino; l’arcobaleno frantumato e affondato nel lago di Carezza dal Mago deluso di non aver potuto conquistare la bella Ondina, sono temi fiabeschi suggeriti alla fantasia popolare da alcuni degli aspetti più singolari di questa bella natura. Ma di tutte queste storie la natura è ispiratrice: principesse e maghi, pastori e villici, spiriti della montagna, fanciulle innamorate e streghe malefiche sono tutte figure che traggono la vita da quei boschi, quelle acque, quelle nevi, quelle guglie slanciate: insomma, dalle Dolomiti.
“La natura è ispiratrice”, scrive l’anonimo del risvolto di copertina. E questa della diretta ispirazione della natura è anch’essa una favola. Sappiamo che c’è ben altro all’opera nelle fiabe, leggende e miti del folclore. Soprattutto quando in esso abbondano le creature non umane, o parzialmente umane, come accade nei Monti pallidi. Il materiale folclorico raccolto e rielaborato letterariamente da Wolff è, in verità, complesso e stratificato. Vi sono elementi preistorici, retici, ladino-germanici. Ma come in tutte le leggende anche in quelle dei Monti pallidi non è difficile scorgere l’elemento sacrificale. Le innumerevoli creature che popolano i boschi e le crode sono relitti preistorici che evocano da un lato l’espulsione del diverso, dall’altro il non riconoscimento della piena umanità comune (una situazione ben nota agli antropologi). Qui troviamo Anguane (sorta di ninfe, raramente benigne), Ondine nelle acque, Nani dentro le montagne e nei boschi, Salvani e Salvàrie (abitanti delle selve), Strie (streghe), Crodères dal cuore di pietra (abitanti delle montagne che non provano sentimenti), Bregostene (esseri metà donne e metà bestie), Vivane (donne dei boschi che conoscono il futuro), Pelendròns (esseri deformi, maligni e pericolosi)… E qui troviamo la leggenda d’origine della famiglia Ghedina, da cui discendo per parte di madre. Con tanto di eroe eponimo (un cacciatore, guarda caso). Una leggenda con evidenti significati sacrificali. Ecco perché I monti pallidi è per me un testo particolarmente importante, anche per i suoi risvolti personali.
Ho percorso anche io qualche valle dei Monti pallidi; per molti anni ho avuto un piccolo appartamento a Vodo di cadore. A piedi e in bici ho girato anche val di Fassa, i grandi passi, la Pusteria, la val di Non, il Catinaccio, la marmolada…..
e ho letto molti libri. Anche quello che recensisci era nella biblioteca di mio babbo.
A parte il fascino delle storie, magari ripetitive, ma palesemente “vere”, la cosa che mi ha sempre stupito è il disinteresse per la conoscenza della storia locale, nei turisti e villeggianti. E anche in molti “indigeni”, per la verità.
Dagli anni ’60 con il boom dello sfruttamento anche invernale, molti montanari hanno scoperto che si può vivere senza fare una fatica improba (per i sanVitesi era normale andare tutti i giorni a Forcella Staulanza o a passo giau a pascolare..)e in uno slancio di modernità malintesa, hanno cercato di dimenticare il proprio passato.
nel 1988, anno più-anno meno, ho conosciuto un giovane cadorino, diplomato al liceo di pieve con ottimi voti, e sceso a padova per diventare avvocato. Dopo sei mesi aveva capito di aver sbagliato vita, ed era tornato alle sue valli per mettere in piedi la prima agenzia “moderna” di aiuto al turista interessato. Organizzava gite per signore alla scoperta della flora alpina (compreso il giglio rosso di sadorno); arrampicate, rafting, discese in mountain bike (memorabile quella da forcella Averau al trampolino !). … il tutto condito di racconti, aneddoti, commenti.
Dopo qualche anno di stenti a Borca (pochi capivano che tipo di servizio offriva), oggi ha un bel centro a Cortina. Mi raccontava di come fosse oramai difficile avere resoconti di prima mano sul modo di vivere in montagna, fino a pochi decenni orsono.
Voglio sperare che oggi le cose stiano migliorando e che sempre più gente, vedendo i pascoli e gli alpeggi, si ponga delle domande; e ottenga delle risposte
Caro Enrico, da noi è in atto uno spaventoso processo di rimozione del passato (ormai quasi completata) e di sprofondamento nell’oblio. Siamo i Lotofagi da cui fuggì Ulisse.
è facile essere pessimisti, ma è anche vero che una stessa passeggiata, fatta “a mente bendata” è ben diversa se ripercorsa sapendo come e perchè è nato un certo sentiero.
Da Borca di cadore, c’è un sentiero che costeggiando il pelmo, giunge a Zoppè, in val Zoldana. mille metri di dislivello, almeno tre ore di cammino. Un panorama stupendo, ma il valore aggiunto viene dal sapere che era il percorso che il postino compiva almeno due volte alla settimana per portare la posta dall’Ampezzo a Venezia, prima che venisse aperta la strada da pieve a Ospitale.
Quando la feci con mio figlio di sei anni, non espresse nessuna sensazione; ma questa estate, andato con gli amici in campeggio nella zona, mi ha chiesto le dritte per trovare proprio quel sentiero; e non il rifugio “chic” per cortinesi annoiati….
Un barlume di speranza ?