L’obbedienza è la virtù suprema. Amare la necessità (I. 333)
La non-violenza è buona solo se è efficace (I. 334)
L’obbedienza di cui si parla non è quella particolare a questo o quest’altro essere umano, anche se questa è comprensibile solo all’interno del rapporto di forza (psicofisica o spirituale), bensì l’obbedienza generalissima a ciò che Seneca chiama, al plurale, fata. Il sapiens si distingue per il consenso, il sì che egli pronuncia alla catena inesorabile degli eventi, cui anche il ribelle non può sfuggire. Mi pare evidente come nella visione weiliana non sia possibile realmente l’irrompere di un novum radicale, e dunque non sia data mai una vera libertà. Ma la questione è non solo antropologica: essa è del tutto teologica, perché è in gioco la possibilità di pensare la libertà di Dio. Dio come libero, o addirittura come assoluta libertà, non è pensabile con le categorie stoiche, e in generale metafisico-induiste, secondo le quali si muove Simone Weil. Non è soprendente, poi, che il problema della libertà si ponga anche in Mancuso, il cui debito nei confronti di Simone Weil è trasparente. E non è soprendente nemmeno che anche nel pensiero di Girard la fondazione della libertà rimanga qualcosa di labile e casuale: il meccanismo originario della vittima, da cui scaturisce l’umano secondo la sua teoria, è infatti appunto un meccanismo che richiede un Deus ex machina. Una meccanica spirituale attira Simone Weil… Sia in Girard che nella Weil che in Mancuso la libertà appare sospesa su di un abisso senza fondo. Non è costitutiva dell’umano. Essa viene dal nulla, dunque essa è nulla.
L’obbedienza è la virtù suprema. Amare la necessità (p. 333)
questa frase è troppo grande…e nulla posso aggiungervi…
però aggiungo…
perchè in lei è la suprema rinuncia alla libertà.