Antisemitismo e sionismo

Antisemitismo e sionismo. Una discussione è il titolo di un agile libretto di Abraham B. Yehoshua, pubblicato nel 2004 e tradotto da G. Felici per Einaudi nello stesso anno. Un libretto che dovrebbero leggere tutti coloro che si sono sentiti in qualche modo coinvolti o interpellati da ciò che è accaduto a Torino nei giorni scorsi.
Quando si bruciano le bandiere di uno Stato si vuol significare il proprio desiderio che quello Stato sia annientato. Infatti coloro che questo bramano non chiamano Israele uno Stato, ma un’entità: l’entità sionista. Qui si vede all’opera un rancore abissale, l’eterno risentimento contro l’Ebreo.
Scrive Yehoshua:

Le minacce di sterminio, e non solo una giustificata richiesta di fine dell’occupazione, il rancore abissale e razzista da cui sono sfociati i recenti episodi di terrorismo estremista e suicida, rimettono sul tappeto la necessità di capire la radice dell’antisemitismo. La dispersione e la divisione degli ebrei, per quanto innegabili, non bastano più a spiegarne l’essenza. Negli ultimi tempi persino la legittimità stessa dello stato ebraico, e non solo la sua linea politica, è stata messa in discussione dai suoi oppositori. E questo è uno sviluppo preoccupante che nemmeno i sionisti più pessimisti avevano previsto. (p. 26)

Yehoshua individua il movente fondamentale dell’antisemitismo nella paura.

La paura degli ebrei, e non l’invidia nei loro confronti, è dunque la causa principale e determinante dell’antisemitismo. Gli ebrei fanno fatica ad accettarlo perché prediligerebbero di gran lunga la seconda ipotesi: essere invidiati dai credenti per essere i prescelti da Dio e dai laici per i nostri successi in vari campi. Chi è odiato, infatti, preferirebbe attribuire il livore nei suoi confronti a ciò che ritiene essere i suoi successi, materiali o spirituali oppure, se questi non sono evidenti, per lo meno alla sua grande “levatura morale” . (pp. 32 – 33)

Yehoshua ci presenta una visione consapevolmente problematica della questione ebraica. La paura che gli antisemiti provano nei confronti dell’Ebreo sarebbe, secondo lui, una paura motivata dalla debole identità degli antisemiti stessi: essi si trovano davanti un gruppo umano che ha a sua volta una identità inafferrabile, perché anche l’Ebreo fa fatica a dire che cosa lo renda tale (e Yehoshua fa l’esempio di Freud, ateo che pur si sente ebreo senza poter spiegare, lui razionalista, perché). Il risentimento antisemita deriverebbe dunque da questa debolezza identitaria. La radice di tutto sta, secondo lo scrittore isrealiano, nell’iniziale identificazione di una nazionalità con una religione, da cui sono derivate una serie di conseguenze paradossali. Su questo nodo si dovrebbe operare per uscire da un groviglio che si fa sempre più inestricabile.

Per comprendere l’essenza della rivoluzione sionista e il cambiamento radicale che dovette attuare nell’identità ebraica occorre capire e ammettere un semplice principio, un fatto risaputo ed evidente a tutti gli storici ma, cosí mi pare, ancora arduo da accettare per il popolo ebraico giacché comporta una presa di responsabilità morale nei confronti del proprio amaro destino.
Tale principio è il seguente: la diaspora non è una condizione imposta agli ebrei da altri ma una loro scelta precisa. Una scelta complessa, è vero, dolorosa e rischiosa, compiuta per risolvere, o meglio, per eludere, un conflitto sostanziale e fondamentale dell’identità ebraica nato (o delineatosi come vigorosa aspirazione) già nel deserto del Sinai in seguito alla straordinaria identificazione di una particolare nazionalità con una particolare religione (per quanto caratterizzata da spirito, visione e aspirazioni universali). Tale identificazione è problematica e moralmente paradossale
(…) (pp.72 -73)

La posizione di Yehoshua, che mi pare echeggiare alcuni punti sostanziali del mirabile libro di Hannah Arendt The Origins of Totalitarianism, è dialettica e favorevole al dialogo, come tutte le posizioni aperte ad una critica del gruppo cui si appartiene (a meno che la critica non sia mera espressione di un cupio dissolvi, e quindi una pseudo-critica, quale spesso si manifesta oggi in Italia).

Nel corso della storia anche noi ebrei siamo diventati cittadini di altre nazioni esigendo, a ragione, pieni diritti. Se altri popoli si fossero comportati come noi, vincolando l’appartenenza alla nazionalità a quella a una particolare religione, ciò non sarebbe stato possibile e noi avremmo dovuto abbandonare la diaspora e fare ritorno alla terra d’Israele, oppure rassegnarci a una condizione di «eterni stranieri». In altre parole siamo noi a violare un principio di reciprocità nei confronti degli altri popoli e questo è moralmente sbagliato. (p.81)

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