Dalla questione De Initio non si uscirà mai. Penso che abbia ragione Eric Gans nel definire la religione cattiva cosmologia e buona antropologia. La religione infatti non illumina affatto il cos’è del mondo fisico, della sua costituzione non può dire nulla, ma illumina benissimo il significato profondo dei rapporti umani, soprattutto di quelli sociali, per i quali è nata. La questione principale è oggi quella della nascita dell’umano in quanto differente dall’animale. E in quanto segnato fin dall’inizio dalla violenza intraspecifica.
Si pensi a questo: la morte, l’argomento per eccellenza della riflessione e del dialogo (”tota philosophia commentatio mortis est”, scrive Cicerone, ovvero la filosofia è essenzialmente una meditazione della morte), oggi è evitata nel discorso di tutti, massime in Italia. Nascosta in un angolo, sottoposta a tabù. In Occidente essa è relegata nella fiction cinetelevisiva (dove per compensazione abbonda, insieme alla violenza) e negli ospedali, dove è amministrata tecnicamente. La gente non ne vuole sentir parlare. Distoglie lo sguardo, che però affascinato ritorna dove non dovrebbe, in modo surrogato e virtuale. Ma questo secondo me va inquadrato nel pensiero vittimario vigente, cioè nel trionfo del senso di colpa nello stesso Occidente, che si sente responsabile di tutti i mali e della violenza del mondo, delle vittime di ogni tipo. Il vittimismo e l’antioccidentalismo sono due facce della stessa medaglia. I non occidentali, gli animali, perfino le piante: tutti ci appaiono vittime. In TV, ad esempio, vige una censura assoluta: non si vedono mai ammazzare gli animali, quelli di cui ci nutriamo, e se si fa una trasmissione sul prosciutto di Modena, l’unica cosa che non ti fanno vedere è l’uccisione del porco. Non farebbero mai vedere una contadina che tira il collo ad una gallina. Però si vedono documentari con scene di predazione animale estremamente cruente (come leoni che uccidono lentamente un grossa preda). In sostanza: oggi si pensa che la gente possa contemplare lo sbranamento di un pinguino da parte di un’orca marina, con tutto il sangue che schizza ovunque, e non l’uccisione asettica di un pollo in un allevamento. Un motivo ci sarà… tutto si tiene. Nella coscienza diffusa ogni vittima fatta da noi è inaccettabile, ogni morte ingiusta, compresa quella del pollo, e mangiamo il panino col salame in piena falsa coscienza.

Concordo in pieno;
nell’assistenza ai pazienti che giungono alla morte, si sente fortissima la mancanza di preparazione culturale e sociale all’evento “morte”.
ed è spesso comodo fare finta di non accorgersene, anche per i medici.
Accludo un breve pezzullo autobiografico (qualcosa di simile è apparso sul Covile di S.B.)
Se è fuori luogo, non mi offendo se lo farai sparire.
IN MEMORIAM
Di solito si scrivono articoli in memoria delle persone speciali: personaggi famosi, celebrità, artisti, scrittori, uomini politici, sportivi, musicisti.
Se vi parlo di Roberta, è perché, pur non essendo un personaggio famoso, un’attrice, una cantante, un’artista conosciuta, era lo stesso una persona speciale.
Una persona speciale che ho conosciuto e ammirato come donna.
Fin da prima che si ammalasse, c’era fra di noi un rapporto che non posso definire di amicizia (non mi ha mai dato del tu), ma che dimostrava stima e considerazione reciproca. Pochi anni più di me, Roberta era una donna bella ma non vistosa, vivace ma non sguaiata, intelligente e colta ma senza presunzione. Parlavamo non solo di farmaci e di malattie, ma un po’ di tutto, e sempre dimostrava arguzia, competenza e curiosità.
Poi, ho conosciuto e ammirato Roberta come paziente.
La malattia; gli anni di benessere; la recidiva (o meglio il tumore metacrono, e Roberta volle sapere la differenza); il trapianto di midollo; le complicazioni; l’immobilità; il dolore; il letto; l’accettazione; la morte. Se nel nostro lavoro c’è il rischio di diventare insensibili e asettici, di applicare procedure e protocolli, corretti sì, ma in modo automatico e senza com-partecipazione, con Roberta questo rischio non c’era.
Di tutto quello che le capitava, di ogni esame, di ogni trattamento cui veniva sottoposta, voleva sapere rischi e benefici, presupposti teorici e risultati sperimentali, vantaggi possibili e svantaggi da temere. Dovendo rispondere alle sue precise, legittime ed intelligenti domande, ero “costretto” ad un surplus di aggiornamento anche in settori superspecialistici, ben lontani dal mio lavoro di tutti i giorni. Scherzavamo su questi suoi “interrogatori” ; quando riscontrava che le mie spiegazioni e le mie valutazioni coincidevano con quanto le dicevano professori e specialisti (anch’essi sottoposti al terzo grado), mi raccontava: “Il prof. X ha detto che devo farle i complimenti: le cose che mi aveva detto dimostrano che è molto preparato. Adesso mi deve ringraziare: è merito delle mie interrogazioni se ha fatto bella figura…”
Ma soprattutto ho conosciuto e ammirato Roberta come essere umano; lasciatemelo dire: come cristiana.
Nel suo percorso, in cui non le è stato risparmiato niente, ha saputo cercare e trovare motivi, valori, domande e risposte.
Non scopro nulla di nuovo se dico che nel mondo di oggi, nella cosiddetta cultura dominante, certi argomenti vengono negati, o almeno marginalizzati. Un malinteso laicismo vorrebbe farci credere che certe domande sono retaggio di un passato “primitivo”. Giù la maschera! Sappiamo bene che non è così; ma spesso fa comodo crederlo per non dover guardare in faccia la realtà; il che significa per i nostri pazienti guardare in faccia la morte, e per noi medici, guardare in faccia i nostri pazienti che muoiono.
Se i pazienti ci fanno poche domande, quasi quasi ne siamo contenti; anche se sappiamo che certi pensieri, certi dubbi, non possono non affiorare alla loro mente, non assillare il loro spirito. Affrontare per primi certi temi, come l’assistenza spirituale e religiosa? Non se ne parla nemmeno: c’è il rischio di passare per menagramo. Accade così che spesso i rapporti tra medico e paziente rimangono superficiali, leggeri; professionali forse, ma senza anima.
A molte richieste, a molti bisogni dei pazienti siamo allenati a rispondere. L’università, i corsi di aggiornamento, i libri, i congressi, i seminari, le linee-guida, i protocolli, ci hanno preparato ad affrontare e risolvere molti problemi. La terapia del dolore “a gradini” secondo l’O.M.S., le interazioni fra farmaci, la stipsi da oppiacei; ad ogni problema “tecnico” possiamo tirare fuori l’ultimo ritrovato, sia sul piano farmacologico, che su quello burocratico-assistenziale. Non possiamo davvero dire che ci manchino i mezzi e le strutture per offrire una risposta ai bisogni materiali dei nostri pazienti.
Ma le richieste di Roberta erano diverse. “Dottore- mi chiese un giorno- secondo Lei, Dio è più giusto o più misericordioso?”
Per rispondere a questo tipo di domanda non avevo nessuna linea-guida, nessun testo, nessun protocollo cui far riferimento. Per fortuna di Roberta (ho fatto fatica a scrivere “fortuna”, ma è andata proprio così), riuscii a metterla in contatto con un assistente religioso di grande levatura culturale e spirituale, che le è stato vicino nel modo credo più giusto, aiutandola a completare un percorso di conoscenza e di comprensione che è stato utile a Roberta non meno della terapia del dolore a gradini secondo l’O.M.S. e la gestione della stipsi da oppiacei. Roberta ha fatto un cammino di “purificazione” nel senso che ha progressivamente saputo selezionare fra i mille rumori e i mille stimoli della vita quelli più veri, più semplici, più “puri”. Mi raccontava di quante persone, fra le sue conoscenze, fossero per lei di fastidio più che di conforto: di come la capacità di porsi di fronte ai “veri” problemi, le facesse distinguere con chiarezza i veri amici e le vere amiche.
Molti di noi hanno letto, magari molto superficialmente e quasi “per sbaglio” certe biografie di santi o di presunti beati. Paccottiglia da quattro soldi, belle parole inventate di sana pianta; anch’io spesso liquidavo così certi libercoli che si trovano appoggiati su qualche panca in fondo a qualche chiesa fuori mano. Oggi, dopo aver visto la “passione” di Roberta, non posso più considerare quelle pubblicazioni semplice paccottiglia. Ho visto e ho toccato con mano cosa può accadere nella mente, nel cuore, nell’anima delle persone.
Ricordo un giorno che cercò di farmi capire che stava sforzandosi di accettare l’idea che il nostro destino non siamo noi a costruircelo, ma Qualcuno sopra di noi che prepara ad ognuno una specie di copione personalizzato. Così chi credeva di essere portato per un certo tipo di lavoro, scopre di “doverne fare” un altro; chi si immaginava padre di famiglia numerosa, non riesce a mettere al mondo nemmeno un figlio, e così via.
“Perché vede, dottore: se è così, non solo devo accettare tutto questo (e indicava il suo corpo che si indeboliva a vista d’occhio), ma devo esserne orgogliosa. Capisce dottore, orgogliosa! Il problema è che, se ne divento orgogliosa, rischio di peccare di superbia…”
Proprio pochi giorni prima della sua morte, parlavamo di tante cose, e anche di cucina; le dissi che, tra i miei piatti preferiti, ci sono i quadrettini di sfoglia in brodo, i “parpadellini”.
Non erano passati neanche dieci giorni; Roberta era morta; una sera sua mamma e suo babbo entrano in ambulatorio, i volti segnati dall’incredulità più che dal dolore. La signora Nerina mi porge un vassoio di cartone:” Questi parpadellini sono per Lei, da parte di Roberta.”
I parpadellini restano uno dei miei piatti preferiti, ma quelli di Roberta li ho surgelati, e non ho ancora avuto il coraggio di mangiarli.
Grazie di questa testimonianza, Enrico. Mi ha ricordato molto la morte di una persona a me cara.
L’ha ribloggato su Brotture.