Il Decano

dec.jpgIl Decano di Lars Gustafsson (Dekanen, 2003, trad.it di C.G. Cima, Iperborea 2007) è un romanzo sul male e un romanzo di pensiero. Gustafsson, che ha insegnato “storia del pensiero europeo” per più di vent’anni nell’università di Austin in Texas, nei suoi libri affronta problemi esistenziali a partire da una meditazione continua delle grandi tematiche della filosofia e in generale della cultura dell’Occidente. La figura diabolica e misteriosa del Decano dell’università, sulla sua sedia a rotelle (ha combattuto nel Vietnam e vi è stato gravemente ferito dopo aver conosciuto l’ebbrezza della distruzione), che molto parla e ragiona, e diffonde il male intorno a sé, mi ha ricordato immediatamente il loquace Kurtz di Cuore di tenebra e di Apocalypse now. Ma qui il cuore di tenebra non è nel mezzo della selvaggia Africa nera o nella giungla indocinese, bensì da quest’ultima è stato trasferito nel centro della post-modernità occidentale. Il protagonista e voce narrante Spencer Spencer appare, dal canto suo, caratterizzato dalla tipica debolezza del soggetto letterario postmoderno. La sua identità fragile si sgretola davanti alla perversione del Decano. L’espediente eterno del manoscritto è qui un dato metaletterario: il manoscritto è recentissimo e tuttavia pieno di parti corrotte e illeggibili, a significare l’impossibilità di una comprensione unitaria e univocamente sensata della realtà. Il Decano è uomo colto, e pure è dominato dal demone della violenza, dal bisogno di uccidere. La cultura, per quanto raffinata, ci dice Gustafsson, non è il rimedio alla pulsione mimetica e omicida dell’umano, non può soffocare il suo bisogno di vittime. In realtà, sosteniamo noi, la cultura odierna è in sé scissa: la sua origine come cultura umana è infatti nella pratica sacrificale e insieme nel differimento della violenza universale, differimento che rende possibile quella pratica stessa. Ma può funzionare solo se la società accetta il sacrificio. La nostra società non lo accetta più, da tempo, e la violenza, priva dei canali istituzionali, si comporta come il magma di un vulcano: fuoriesce dove può, in chi può, assumendo i tratti di un nichilismo affascinante, a volte misticheggiante a volte lucidamente intellettualistico. Il momento centrale della storia narrata da Gustafsson è il capitolo intitolato Il Decano fa domande, dove la sua natura conradiano-dostoevskiana emerge in piena luce nel dialogo con Spencer Spencer.

«C’è una cosa che non dobbiamo dimenticare. Noi viviamo in un’epoca totalmente amorale.
Non c’è nulla, letteralmente nulla, che trattenga gli esseri umani dai peggiori misfatti. Il buon vecchio romanzo poliziesco, in tutto e per tutto essenzialmente un prodotto dell’impero britannico con i suoi principi legali altamente evoluti, ha fatto in tempo a diventare ormai ridicolo, alla fine di questo secolo.
Come può l’omicidio in biblioteca misurarsi con le fosse comuni del Novecento, i suoi forni crematori e le sue fabbriche di sterminio?
E dove va a finire il mistero se tutti sappiamo chi ha commesso i crimini? Non c’è più bisogno di ingegnosi detective, di segugi che seguono naso a terra labili tracce e di intelligenze superiori in berretto sportivo che traggono le conclusioni esatte in mezzo a brughiere deserte.
E come se ciò non bastasse; sappiamo anche che i criminali nella maggior parte dei casi non sono mai stati puniti. La morte di Hitler è stata proporzionata a ciò che aveva commesso? Non direi. Di Stalin sappiamo che aveva l’abitudine di guardarsi film di Chaplin nella sua sala di proiezione privata dopo giornate passate a esaminare lunghe liste di esecuzioni capitali. E che rideva di cuore a quei film. Si potrebbe quasi dire: più grande è il crimine, minore è il rischio di punizione. ll rischio di essere scoperti naturalmente esiste – ma che importanza ha essere scoperti per uno Stalin, un Hitler o un Eichmann?
In questa prospettiva naturalmente si può dire che questi moderni assassini arabi che si fanno saltare in aria insieme alle loro vittime, passanti innocenti e bambini dell’asilo, rappresentano una forma moralmente molto più soddisfacente di criminalità. Costituiscono un nuovo tipo di criminali che in effetti incorporano la propria stessa punizione – e, si può ben dire, una giusta punizione – nel crimine stesso.
Lo fanno, ne sono convinto, non per qualche sciocca motivazione religiosa, ma perché hanno un’idea del nulla, della sua estensione e delle sue reali dimensioni. Non hanno meritato un destino migliore. Ed è proprio questo che dimostrano. Con mezzi tanto spaventosi.
Nel complesso io giudico l’Inferno, il vero Inferno di una volta, con le sue sofferenze infinite, il terrificante isolamento nelle segrete più profonde dell’universo, le insopportabili grida dissonanti dei demoni che volano bassi sotto un cielo grigio da secoli, questo Inferno dove tutte le nostre promesse si svelano come tradimenti e tutto il nostro amore come falso e come egocentrismo camuffato, io lo giudico una necessità morale, si, metafisica.
Naturalmente vedi che ho ragione, non è vero, Spencer?»
Io ammettevo, un po’ titubante e balbettante, che poteva anche avere ragione. E continuavo a chiedermi come diavolo avesse saputo di Mary Elizabeth e del mio detestabile cugino. Questa metafisica facevo un po’ fatica a seguirla. In ogni caso in quel momento.
«l’Inferno è dunque una necessità morale. Siccome è evidente che i malvagi non vengono puniti in questo mondo ma se mai premiati, soprattutto se sono troppo malvagi, abbiamo bisogno di un altro mondo.»
«Potrebbe darsi?»
«C’è solo un problema, Spencer. Non esiste la benché minima ragione di credere che questo altro mondo esista.»
(pp. 164-165)

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