Il velo di Draupadi

drau.jpgIl velo di Draupadi (Le voile de Draupadi, 1993, trad. it. di M. Ferrara, Edizioni Lavoro, Roma 2004) di Ananda Devi è un romanzo che tiene fede al suo titolo. Sebbene sia scritto da un’autrice mauriziana di oggi (fatte salve le differenze, la Mauritius della Devi non può non ricordare la Trinidad di Naipaul: due isole con popolazione mista e molti Indiani immigrati da poche generazioni ), e in francese, esso ha un tema che non mi pare realmente colto dai pochi commenti cui ho potuto accedere, compresa la prefazione di Marie-José Hoyet: la questione del sacrificio della donna, inteso anzitutto nel suo senso più immediato e letterale.
Il riferimento al Mahabharata, di cui Draupadi è la principale figura femminile, è anche il riferimento all’intera cultura indù, cui appartiene la pratica del rogo della vedova, il sāti. La storia è qui quella di Anjali, una donna colta e abbastanza emancipata, che viene risucchiata nelle antiche usanze, cui non concede il suo assenso intellettuale, ma che la forzano comunque ad un consenso. Il figlio bambino è mortalmente malato, la medicina moderna impotente, i familiari e i parenti e il marito avvocato—che lei non ama più—la spingono inesorabilmente al sacrificio: dovrà camminare sul fuoco. Poiché, come dice un sacerdote, “…può chiedere a Dio di offrirle la vita di suo figlio. È però suo dovere dare in cambio una parte di sé per meritare quel dono infinito, quel dono divino”(p. 134). E lei ha, tragicamente, nella memoria la figura di una sua giovane amica, la mistica e innamorata Vasanti, considerata dai contadini una strega, e morta nelle fiamme durante un rito sacro. Le due fondamentali valenze del sacrificio, lo scambio e l’espulsione, sono entrambe presenti ad Ananda Devi. Nel brano che qui riporto, emerge da un lato l’alterità di Anjali rispetto al proprio ambiente, dall’altro il senso di tutti i rituali, compresi quelli più quotidiani e gestiti dalle donne, ovvero il differimento della violenza.

«Sono vissuta accanto a loro, sempre ai margini, né amica né nemica, partecipando talvolta alla loro vita formicolante, ma senza mai condividere la stretta parentela mentale che li univa, soprattutto in occasione delle feste.
Le donne che si affaccendano intorno agli enormi recipienti di stagno dove cuoce il riso, dove gorgogliano i vari curry spandendo il loro profumo forte e penetrante, soleggiato come le spezie messe a essiccare nell’ardore bianco di Port-Louis prima di macinarle; le pentole di smalto dove macera lenta­mente il latte cagliato dalla schiuma bionda; gli uomini eccita­ti dal rum che strappa risate a squarciagola, bestemmie pesan­ti, scherzi lascivi che interrompono solo in mia presenza — im­barazzati come bambini colti in fallo.
Non c’è un momento di pausa in questa vita. Anche in tempo normale, bisogna sempre spazzolare, pulire, lucidare, spolve­rare; condividere il piacere di mangiare quei piatti tradizionali la cui esatta e paziente preparazione diventa un punto d’onore, e poi ricominciare la pulizia degli utensili, delle stoviglie, del­la casa, con una sorta di ossessione.
Assoggettarsi a lavori banali e talvolta meschini che diventa­no un rito, una schiavitù quotidiana che non è sentita come ta­le solo perché rafforza i legami, dà un senso a una vita fatta di abitudini, stabilisce l’ordine e il contegno sotto un potere invi­sibile e tutto questo consente di pensare ad altro, di aspirare a una libertà qualsiasi.
In fondo, provo per loro una sorta di affetto impreciso, vago, che si alimenta di solidarietà occasionali, poi si dissolve, e poi, altre volte, si trasforma in una forte sensazione di differenza. Differenza, barriera, strana incomprensione che nasce dalla prossimità, che nasce da fedeltà temporali, incontrollabili. Dif­ferenze, similitudini, stessi lineamenti orientali, stesse abitudini di vestiario, e pensieri, mentalità che si situano a poli opposti.» (p. 133)

Il romanzo è scritto in prima persona, come moltissimi altri romanzi dell’ultimo secolo: tanto meno certa è la verità sopraindividuale, tanto più risuona, spesso confusa e confondente, la voce dell’io.

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