Capita che anche in libri che non consuonano con il nostro spirito possiamo leggere delle pagine splendenti, sulle quali il nostro occhio ritorna più volte, a rilevare i movimenti aperti e quelli più nascosti. Il libro di Benjamin, romanzo-diario di Bo Carpelan (Benjamins bok, 1997, trad. it. di C. Giorgetti Cima, Iperborea, Milano 2003), è una sorta di lunga confessione, uno scavo nei detriti e nei piccoli oggetti della memoria alla ricerca di una responsabilità personale (di una condanna o di una assoluzione o di qualcos’altro) per un fatto in cui il narratore è rimasto coinvolto nella sua fanciullezza. La condizione di demente in cui un suo amico è precipitato in quei tempi lontani a causa di un oscuro incidente interroga Benjamin, che cerca una risposta. Ma tradurre il passato per la coscienza del presente non è una cosa facile. Benjamin nella vita fa il traduttore, ma questo non l’aiuta in quell’altra ben più gravosa opera di traduzione. Così, la cifra fondamentale di questo libro crepuscolare (boreale, verrebbe da dire), pur niente affatto disperato, è la malinconia. Che è magnificamente declinata nelle righe seguenti.
La malinconia non è un passivo guardarsi l’ombelico, è uno stile di vita, un modo di vedere l’esistenza, nella sua forma migliore è lucidità. Ha poco a che fare con il sentimentalismo. È un rendersi conto: che la vita è breve, che la morte attende tutti, che la malattia e la sofferenza fanno parte della vita. La malinconia confina con la tristezza, una brutta parola. Occorre forse una certa forza interiore per vedere la caducità e coglierne la bellezza. La malinconia confina anche con la rassegnazione, pure questa una brutta parola agli occhi di molti. Mai rassegnarsi! In piedi e via! Più azione! esclamano gli esuberanti, e danno una bella pacca sulla schiena al loro prossimo, magari già malconcio. La rassegnazione è il legittimo rifugio al triste pensiero che non posso far nulla riguardo a un sacco di cose, nonostante tutti gli appelli e i bei pensieri. Per tornare alla malinconia: è un buon rimedio contro tutta l’arroganza che la lotta per la sopravvivenza porta con sé tra gli esseri umani. Guardate quanto sono bello, sano, e immortale! Ma gli allegri urrà si spengono con l’arrivo del gelo e dell’autunno. Allora è preferibile avere una difesa discreta ma salda nel profondo, magari in forma di una solida fede. La malinconia richiede una certa dose di equilibrio, di contemplazione, di solitudine e di capacità di ascoltare, la propria vita come l’altrui. È il tampone necessario e legittimo contro il dolore profondo e in questo somiglia alla convinzione religiosa, quella che non pretende nulla ma dà. La tristezza, la malinconia non offrono nessuna panacea. Sanno che cosa vogliono dire le sconfitte e come si può faticosamente superarle. Non promettono nulla che non possano mantenere. Sono le alte giornate d’autunno dopo un’estate traditrice. (p. 71)
non posso non pensare a: l’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera…
una malinconia pericolosa, il suo sapore non ti abbandona….
la sua tristezza è – dentro – ogni cosa.
ed è necessario provarla.
Grazie per questa segnalazione Fabio
Bonsoir