L’altro volto che dà il titolo a questo romanzo dell’iracheno Fu’ad al Takarli (1960, trad. italiana di S. Triulzi per Jouvence, Roma 2005) è il lato oscuro del protagonista, un impiegato di Baghdad che conduce una misera vita, assediato da fantasmi che non ha la forza di dominare, sorta di inetto in versione araba. Ha una giovane moglie che sembra amare teneramente, ma dopo un parto infelice, la morte del bambino e la cecità che colpisce la donna, la rimanda a Bakuba, e insegue una relazione impossibile con una giovanissima vicina sposata ad un vecchio. Ha dei complessi di colpa che non riesce a portare a piena coscienza, è ateo e sulle soglie di un totale nichilismo. La storia è fosca e disperata, ma condotta con grande sapienza narrativa e capacità di leggere nei cuori (al- Takarli, uomo dalla lunga vita, ha fatto il giudice). Dovrebbero leggerlo tutti quelli che della cultura araba attuale hanno un’idea semplice e semplificatrice. E anche tutti gli scrittori italiani che non sanno che anche 100 sole pagine possono fare un grande romanzo.
A volte la vita di un uomo si schiude, come questo cielo di perle, rivelando sia i valori in cui si crede che quelli in cui non si crede. Ciò che conta sopra ogni cosa è avere un’anima generosa e profonda, capace di affrontare qualsiasi cosa lungo il proprio percorso. (p.14)
Se lo dice il protagonista Muhammad, dopo avere guardato con desiderio una ragazza sconosciuta. Lui in realtà è fondamentalmente un vigliacco, verboso e contorto come molti intellettuali e pseudointellettuali d’oriente e d’occidente. L’altro volto è legato al nostro incessante divenire, ne costituisce in qualche modo la cifra solidificata: il nostro io futuro, pienamente disvelato nella sua vacuità, e nella sua fondamentale falsità, tormenta già il nostro presente.
Chi ci salverà dalla persona che noi stessi diventeremo? (p. 93)
Ma cosa possiamo fare di fronte alla persona che diventeremo? E’ una nostra creatura, un dio implacabile (p. 94)
intrigante trama…
Perchè dobbiamo pensare a qualcuno che ci salvi?
pensarlo presuppone un pessimismo di fondo,
siamo gia da salvare nel momento stesso in cui lo pensiamo.
Proprio oggi ho letto una poesia che si riallaccia a questo …
La differenza, di Guido Gozzano
Penso e ripenso: – Che mai pensa l’oca
gracidante alla riva del canale?
Pare felice! Al vespero invernale
protende il collo, giubilando roca.
Salta starnazza si rituffa gioca:
né certo sogna d’essere mortale
né certo sogna il prossimo Natale
né l’armi corruscanti della cuoca.
– O pàpera, mia candida sorella,
tu insegni che la Morte non esiste:
solo si muore da che s’è pensato.
Ma tu non pensi. La tua sorte è bella!
Ché l’esser cucinato non è triste,
triste è il pensare d’esser cucinato