L’anima e il suo destino 5

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Prima di procedere nell’esame dell’interessante e provocante libro di Mancuso, devo fare un’osservazione. Mi pare un segno della miseria dei tempi che stiamo attraversando il fatto che questo libro non abbia aperto un acceso dibattito nella Chiesa italiana. Un libro che contiene affermazioni fortissime, un libro che reca come prefazione una lettera del cardinale Martini, che è stato tra i papabili. Di questo libro non si discute. O si discute sottovoce. Nella Chiesa italiana non si discute mai apertamente di questioni essenziali, e si sa che in essa il laicato è in posizione di cronica debolezza, e ritenuto immaturo, gregge da pascere. Solo i preti, anche sui media, sembrano avere il diritto di esprimere la visione dei cristiani. Mancuso ha sfondato questo muro, e gli va reso onore per questo. In altri tempi sarebbe stato convocato davanti all’Inquisizione: oggi si adopera la strategia miope del muro di gomma. Io sono un eretico, e lo dico; Mancuso lo è, ma si professa cattolico. Qualcuno dovrebbe vedere le carte. Ma procediamo.

L’anima appartiene totalmente al regno mondano dell’essere-energia.

La differenza dell’uomo dal mondo materiale, cioè la sua spiritualità, non significa (…) contrapposizione ontologica rispetto al mondo. L’anima spirituale, che pure conduce chi la coltiva in un’altra dimensione facendolo entrare nell’eterno, è da pensarsi non come una sostanza separata che proviene dall’esterno ma come una peculiare configurazione dell’unica energia che ci costituisce (p. 54)

Ora: per Mancuso Dio abita la dimensione dell’eterno. Questo Dio, che è personale, crea con un atto unico il mondo, ovvero l’energia primordiale che ha in sé il principio dell’ordine, e non fa altro. Dopo la creazione, la realtà procede con le sue gambe, e Dio non interviene più. Per questo, miracoli ecc. sono puerilità e illusioni. Ma questa energia primordiale è anche cieca (p. 64), e causa anche guai (come le malattie genetiche) (p.65). Dunque, come ordine e cecità insieme, l’energia procede costruendo gradi sempre più elevati dell’essere (cioè di se stessa) fino a giungere al livello più alto, che è quello dell’anima spirituale, cui nuovamente si apre la dimensione dell’eterno. Ma come può un ordine cieco essere informato dal Logos divino? L’anima secondo Mancuso si presenta su differenti livelli, o meglio esistono differenti anime: come vita delle piante e degli animali, come mente, come spirito, e come spirito santo (che appartiene a coloro che santificano il proprio spirito). E qui appare una delle maggiori contraddizioni non risolte, e in questo caso neppure tematizzate, di questo libro: da un lato sembra che la dimensione dell’eterno possa essere conquistata solo dall’anima che si è santificata, attingendo la dimensione spirituale più alta, dall’altro che vi sia una salvezza universale (pagine sono dedicate all’apocatastasi). Un’altra contraddizione la vedo nel rapporto tra la personalità di Dio creatore (il Padre), e l’assoluta impersonalità del Principio Ordinatore. Come può una realtà impersonale produrre, per suo sviluppo autonomo, l’autocoscienza? E dunque urge una domanda: che cos’è l’io, il mio io? Mancuso risponde:

Io sono l’idea sussistente che lega in armonia prima le onde-particelle subnucleari, poi gli atomi, poi le molecole, poi le cellule, poi gli organi, infine il mio organismo con la sua molteplice manifestazione di anima vegetativa, sensitiva, razionale, spirituale. (…) Questa idea (…) è una singola manifestazione dell’unica idea pensata eternamente da Dio, dell’unica parola pronunciata eternamente dal Padre, e che mediante il Pricipio Ordinatore ha dato origine al mondo, idea primordiale il cui nome è Logos. Per questo io sono anche il mondo: io, micro-cosmo, sono uguale al mondo, macro cosmo, nel senso che la logica che governa entrambi è la medesima. (pp. 70 – 71)

Qui mi pare evidente come se Mancuso procedesse fino in fondo (ma non lo fa, ad un certo punto si ferma) giungerebbe ad una metafisica tradizionale, per cui l’anima è Dio. Insomma, non siamo affatto lontani dal Tu sei Quello induista, dall’atman come brahman. Nel momento in cui realizzo che il mio spirito è il logos divino in me, io mi realizzo pienamente proprio nel superamento del mio io empirico. Personalmente, vedo tutta la tradizione cristiana divisa da due tendenze fondamentali: quella metafisica e mistica, che vediamo qui in una delle sue possibili espressioni, e quella che vorrei chiamare storico-tragica. Talvolta si uniscono ma in se stesse sono conflittuali. Mancuso inclina decisamente per la prima, ma nella prima il senso della croce reale, del patibolo sanguinoso di Gesù, tende necessariamente ad attenuarsi fino a scomparire come non necessario. L’essere-energia per Mancuso è anche relazione. Ed egli evidentemente pensa la relazione come in sé e per sé positiva, in ragione del suo essenziale ottimismo, mentre io penso che la relazione sia ambigua, potendo essere ab origine anche conflittuale. Penso cioè che amore e lotta siano i due versanti della relazione.

Il centro speculativo del Cristianesimo consiste nel ritenere che questo Logos, relazione eterna e originaria con la sorgente dell’essere, si è incarnato in un uomo. Il che rappresenta il più alto riconoscimento della dignità umana, un principio antropico fortissimo: l’idea che è da sempre e che presiede alla nascita e all’evoluzione del mondo si è incarnata in un uomo, e se si è incarnata non è perché Dio muta o diviene, ma perché essa è da sempre destinata a tale manifestazione come uomo. La perfetta manifestazione della Sapienza creatrice è l’idea di Uomo. Il mondo è finalizzato dal basso alla produzione dell’idea di Uomo, declinata nei miliardi di esistenze concrete, ognuna unica e irripetibile, cui essa dà luogo. (pp. 71 – 72).

La coerenza filosofica imporrebbe a questo punto di affermare che eterna è l’idea di Uomo, e che le singole esistenze accidentali, storiche e transitorie, in quanto tali non possono entrare nell’eterno. E quindi non possono essere salvate, se l’eterno è concepito come totale assenza di tempo e di spazio.

L’anima e il suo destino 4

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Parlare del destino dell’anima significa parlare della morte e di quel che c’è o non c’è dopo la morte. È il problema principe della filosofia tradizionale, che secondo gli antichi è, prima di ogni altra cosa, preparazione alla morte. E la filosofia antica poteva parlare di immortalità dell’anima, oppure offrire altre vie di consolazione (Epicuro). Il proprium del Cristianesimo non è l’idea di immortalità dell’anima, ma l’annuncio che quell’uomo Gesù, il figlio del falegname, ucciso sul patibolo della croce, è risorto, ed è il Signore. Questa è la differenza, che nel libro di Mancuso tende a scomparire nel mare della sapienza metafisica. Mancuso si proclama cristiano e cattolico, ma sembra accettare la resurrezione di Gesù obtorto collo, perché proprio non ne può fare a meno.

Io sostengo (…) che l’anima è immortale in sé e che è solo su questa base che un evento come la resurrezione di Gesù può diventare storicamente reale, non cioè come contrapposizione o addirittura negazione delle leggi dell’essere creato, ma come loro potenziamento, come compimento di quella tensione verso la vita che le pervade fin dall’inizio. (p. 46)

Ma se l’anima è immortale in sé, e se è questo, e non un atto soprannaturale di Dio che interviene nel mondo, a rendere storicamente reale la resurrezione di Gesù, mi chiedo quale bisogno vi sia di credere ancora in questa, che è una mera conseguenza. Si vede qui una stranezza: la resurrezione è storicamente reale, ma l’escatologia non riguarda “l’attesa di un improbabile ritorno del Cristo glorioso tra le nuvole del cielo” (p. 48), ma soltanto la nostra interiorità.

L’obiettivo di questo libro consiste nel mostrare che il legame di Dio con l’umanità è basato su una realtà molto più solida che non singoli eventi storici, siano pure gli eventi della morte e della resurrezione di Gesù. Si tratta di un legame ontologico, concernente sia il corpo sia l’anima, l’intero della nostra realtà, e che per questo è qualcosa di semplicemente indistruttibile. (p. 47)

Che cos’è dunque l’anima per Mancuso? Poiché noi siamo mera natura-physis, l’anima è della natura, è un suo prodotto. La natura non si limita alla materia, ma è energia e ” può produrre un livello superiore di essere, lo spirito, definibile come la vita dell’energia a prescindere dalla materia, e quindi in grado di sopravvivere anche dopo la dissoluzione della materia del nostro corpo” (pp. 52-53). Vedremo che Mancuso pone alcune discontinuità nell’essere (energia), e la possibilità che ve ne sia una suprema che è la vita spirituale indipendente dal corpo. Da intendersi comunque come un effetto del supremo lavoro della natura. Poiché Dio, che Mancuso afferma essere personale senza che si capisca perché dovrebbe esserlo, non interviene assolutamente mai: Egli ha creato il nucleo originario dell’essere con le sue leggi implicite, e poi si è ridotto in sostanza a deus otiosus, e quel che agisce è sempre e soltanto la natura impersonale. L’attributo della personalità, della singolarità che ci rende autocoscienti come ego, la percezione del sé, o, ancora meglio, l’individuazione richiede un principio, altrimenti il discorso si fa vano. Perché e come la mia anima spirituale, il mio spirito, dovrebbe sopravvivere alla morte del corpo mantenendosi come un io autocosciente? Se è la forma suprema dell’energia che io attingo, come può essere che questa energia autocosciente che è in me rimanga separata dalle altre e dall’energia universale? A questo punto ci avviciniamo ad una moderna versione dell’averroismo, che sarebbe, filosoficamente parlando, l’approdo più logico per Mancuso. In ciascuno di noi c’è una parte immortale, che è ratio, una scintilla del nous divino, ma è impersonale, come dimostra il fatto che i principii matematici sono universali, e ugualmente la logica, in me come in te la stessa. Ciò che ci rende differenti gli uni dagli altri sono in nostri corpi, e lo psichismo che li accompagna, per cui io sono bello, intelligemte e simpatico e lui è grasso brutto e scemo. Ma una volta morti, cessato il principio di individuazione, la mia anima razionale immortale si ricongiungerà al mare magnum dell’intelligenza divina, di cui è piccola goccia, la mia più grande della tua, ma della stessa sostanza, e tutto sarà Dio in noi e per noi, ma noi non saremo. È per questo che il Cristianesimo non può fare a meno della resurrezione dei corpi, e nell’aldilà dantesco i beati sono rivestiti di corpi fatti d’aria, poiché noi siamo i nostri corpi, e se il corpo non c’è non ci siamo noi, a meno che la natura lasci spazio alla sovranatura. Ma qui non è più luogo di sapere, ma di fede o di visione mistica.

L’anima e il suo destino 3

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L’umano è per Mancuso un mero prodotto della natura, il vertice (forse) della sua inesauribile produttività. Noi siamo natura-physis. Ed egli pensa che se la natura physis non avesse finalità, noi saremmo senza finalità. Ma per questo teologo la natura è teleologicamente orientata. Deve esserlo, pena l’impossibilità di fondare su di essa l’etica umana, che non può prescindere dal finalismo. Mancuso pensa che sia possibile concepire l’evoluzione in termini non darwiniani, ma amorevoli. Egli ritiene che

sia la natura stessa ad avere in sé un principio di ordine relazionale che nella natura umana trova il suo coronamento come “saggezza solidale”. Se però la natura è quella che descrive Darwin, l’unico esito logico è la volontà di potenza di Nietzsche (attento lettore di Darwin), non certo la “saggezza solidale”. (p. 19)

Anche qui colpisce la incapacità di Mancuso di cogliere il nodo della differenza tra l’umano e l’animale. Quindi egli salta dal piano della natura in sé a quello delle relazioni intraumane, ritenendo che non si possa fondare una solidarietà tra gli uomini se la natura è altra dall’uomo. Insomma, per lui l’uomo è natura realizzata e giunta ad autocoscienza, e non c’è vera discontinuità: gli sfugge la rottura rappresentata dal segno. Il fatto è che Mancuso si sforza di pensare la natura come un tutto, derivante da un unico principio, che è amore. Perché è ordine e giustizia. In sostanza per Mancuso ordine giustizia e amore sono la stessa cosa, e l’energia (che nel suo pensiero ha preso il posto della forza conferendogli una coloritura decisamente monistica) è il concetto chiave. Ma egli non può che essere a questo punto accecato da un ottimismo che lo porta a trascurare o a minimizzare l’aspetto oscuro e terribile della realtà, che si percepisce non tanto con lo sguardo dell’astrofisico o del fisico nucleare, che qui sembra costituire il riferimento dominante, ma con quello del biologo e dell’etologo, insomma del naturalista come osservatore della vita, dei suoi ritmi e delle sue manifestazioni. L’accecamento di Mancuso davanti alla dura realtà dell’ordine naturale emerge anche in affermazioni come questa:

Bruciandolo sul rogo [Giordano Bruno] la mia Chiesa ha tolto all’Occidente la possibilità di fondare il senso della giustizia e del bene sull’ordine naturale. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. (p. 19)

Questa proposizione mi sembra molto rilevante. Da un lato, vi si afferma la bontà dell’ordine naturale e la possibilità che su di esso si fondino la giustizia e il bene degli umani, dall’altro evidentemente si nega che l’ordine e la giustizia possano essere basati su qualcosa di diverso dall’ordine naturale. Ed è ovvio che l’ordine naturale immaginato debba essere giusto. Ma è anche chiaro che se l’essere è energia, e la natura è ordinata e giusta, tutto ciò che vi accade deve allora riferirsi ad un ordine giusto: scontri di galassie, terremoti, esplosioni di stelle e pianeti e vulcani, ma anche scontri tra esseri viventi, uccisioni e malattie, tutto deve rientrare nell’ordine. Altrimenti nel pensiero che pensa la natura come ordine intrinsecamente saggio si aprono delle falle. Da dove verrebbe ciò che non può non apparire come disordine? In verità, l’ordine che appare ai miei occhi è il frutto di una interpretazione. Benché Mancuso affermi che l’evoluzione è un fatto, e l’evoluzionismo una teoria (p. 14) ( a me risulta che l’evoluzione sia ciò che una teoria afferma essere un fatto, e per niente un fatto di cui si abbia una qualche esperienza, a meno di intendere per fatto qualcosa di piuttosto vago), egli sembra propendere per una visione solidaristica dell’evoluzione stessa (facendomi pensare che anche le interpretazioni dipendano da temperamenti e propensioni personali). Poiché il movimento della natura è impersonale, scrive il teologo, talvolta vi si verificano degli errori (guarda un po’, e chi li giudica tali?), che sarebbero delle casualità che fanno male a qualcuno. Ma, insomma, nell’insieme tutto va piuttosto bene, è ordine e armonia. Dunque l’asteroide precipitato sulla terra che annienta miliardi di vite e fa scomparire i dinosauri (se è buona quella teoria), e se fosse un po’ più grosso forse annienterebbe il pianeta, cos’è, un errore un po’ più grosso di quello per cui è scoppiata la peste nera del Trecento?

Grande questione è quella della forza, e del suo rapporto con l’amore. Qui è anche questione terminologica. Poiché forte si può predicare di molti nomi, e la forza è una caratteristica che, nel senso di durezza, impenetrabilità, ecc. si può attribuire anche a questo tavolo. Ma la forza di cui parla Simone Weil è anzitutto quella che si declina come violenta sottomissione di un altro essere. E come suo asservimento, riduzione a cosa, o uccisione. Se qui noi perdiamo la distinzione tra l’umano e l’animale che a suo fondamento ha il segno, per cui l’umano è essere significante, noi ci perdiamo in una selva oscura. Poiché nel mondo animale la forza è senza dubbio sovrana. Basta pensare ai rituali d’amore di tutte le specie, che consistono sempre in prove di forza, talvolta sanguinose e perfino mortali, seppur per accidens, prove mediante le quali il più forte accede alla fecondazione e il più debole ne è escluso. E pensiamo solo a questo: l’aquila (l’animale più nobile in assoluto all’interno della simbologia umana universale) depone solitamente due uova, ad alcuni giorni di distanza l’uno dall’altro. Ne nascono due pulcini , e quando nasce il secondo si trova a competere per il cibo portato nel nido con un fratello più grosso e potente, e solitamente finisce ucciso e mangiato da lui. Questo è l’ordine naturale, non è un errore. Ora, o a quest’amore diamo un senso così non più umano troppo umano da perdere qualsiasi rapporto con ciò che intendiamo normalmente con la parola amore, o facciamo la figura degli ingenui e dei vanamente ottimisti.

Prima anch’io sostenevo che tra la forza e l’amore vi fosse una differenza qualitativa, nel senso che se c’era la forza non vi poteva essere l’amore, e se c’era l’amore non vi poteva essere la forza. Ora invece penso che tra le due realtà vi sia solo una differenza quantitativa, nel senso che l’amore è sempre forza, ma forza più intelligente, più ordinata e quindi più stabile, per così dire, più forte. L’amore è la forza più intensa che c’è. (p. 22)

Dal mio essere natura-physis, penso al contrario io, nascono anche la mia aggressività verso i maschi della mia specie, la mia ricerca dello spazio vitale, lo spirito di branco, la sopraffazione del più debole, ecc.

Il bene, la volontà di fare il bene, non nasce dalla nostra buona volontà, ma molto più profondamente dal nostro essere natura-physis. Il fondamento dell’etica è fisico (p. 24)

Ma vedremo domani che anche in questo libro su questo punto non vi è una totale coerenza. Poiché se il fondamento dell’etica fosse fisico, non si dovrebbe mai chiamare in causa alcuna trascendenza.

L’anima e il suo destino 2

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L’impostazione metafisica del libro di Mancuso è chiara fin dall’inizio. A p. 9 egli infatti scrive che il “tema dell’anima e del suo destino è strettamente collegato a quello della verità, all’affermazione cioè che esiste una dimensione immutabile e definitiva dell’essere”. Dell’anima, poi, il teologo ragiona “come qualcosa di naturale, come il principio della vita, come la realtà più concreta che c’è” (ibidem). Si vede subito, quindi, che la questione della natura è, in questo libro, assolutamente decisiva. La natura è “il fondo primordiale dell’essere” (p.10), che Mancuso declina in termini di energia.  Facendo corrispondere senza residui essere ed energia, il teologo pensa di aver superato l’abisso tra la metafisica tradizionale e la scienza moderna. Ma se essere ed energia sono la stessa cosa, che senso ha l’affermazione l’energia è? E, seconda questione, che svilupperemo in seguenti post: il segno, che marca la differenza tra l’umano e l’animale, è solo energia? Perché il segno ha questo di proprio: trascende il piano della realtà puramente mondana e facendo questo pone il tema della trascendenza. Che in questo libro rimane un fondo oscuro oltre il fondo primordiale dell’essere, quasi ci fosse bisogno di una origine personale di tutto oltre il fondo dell’essere impersonale. Quello che più mi ha colpito in questo libro è un difetto di antropologia. Questo risulta evidente nel modo in cui Mancuso tratta la pagina biblica della creazione dell’uomo, a p. 14.

Dobbiamo cambiare prospettiva rispetto al racconto biblico di Genesi 2, 7 secondo cui Dio prese la polvere, plasmò l’uomo e poi infuse il suo soffio vitale nell’uomo. Per stare all’immagine mitica utilizzata dal testo, occorre piuttosto pensare che Dio infuse il suo soffio vitale prima, direttamente nella polvere, nella materia-mater, la quale poi da sé, autonomamente, ha dato origine alla vita in tutte le sue forme, compresa quella dell’uomo. Si tratta di una prospettiva legittima anche a livello biblico alla luce dei racconti di creazione della tradizione sapienziale, in particolare Proverbi 8 e Siracide 24.

A mio avviso, il senso fondamentale dei primi capitoli del Genesi sta nella differenza radicale che viene posta tra l’umano e il resto della natura. In termini mitici, ciò che viene scandito dalla Bibbia è la trascendenza dell’umano, legata alla parola, il segno, che pone l’umano di fronte alla natura come parte di essa e insieme come suo specchio cosciente, dotato di consapevolezza, responsabilità e capacità di azione (di bene e di male). Il sorgere dell’umano è una rottura dell’ordine animale: il soffio significa questo. È una liberazione dell’umano dalle catene animali. Dio, fin dall’inizio è un liberatore.