L’umano è per Mancuso un mero prodotto della natura, il vertice (forse) della sua inesauribile produttività. Noi siamo natura-physis. Ed egli pensa che se la natura physis non avesse finalità, noi saremmo senza finalità. Ma per questo teologo la natura è teleologicamente orientata. Deve esserlo, pena l’impossibilità di fondare su di essa l’etica umana, che non può prescindere dal finalismo. Mancuso pensa che sia possibile concepire l’evoluzione in termini non darwiniani, ma amorevoli. Egli ritiene che
…sia la natura stessa ad avere in sé un principio di ordine relazionale che nella natura umana trova il suo coronamento come “saggezza solidale”. Se però la natura è quella che descrive Darwin, l’unico esito logico è la volontà di potenza di Nietzsche (attento lettore di Darwin), non certo la “saggezza solidale”. (p. 19)
Anche qui colpisce la incapacità di Mancuso di cogliere il nodo della differenza tra l’umano e l’animale. Quindi egli salta dal piano della natura in sé a quello delle relazioni intraumane, ritenendo che non si possa fondare una solidarietà tra gli uomini se la natura è altra dall’uomo. Insomma, per lui l’uomo è natura realizzata e giunta ad autocoscienza, e non c’è vera discontinuità: gli sfugge la rottura rappresentata dal segno. Il fatto è che Mancuso si sforza di pensare la natura come un tutto, derivante da un unico principio, che è amore. Perché è ordine e giustizia. In sostanza per Mancuso ordine giustizia e amore sono la stessa cosa, e l’energia (che nel suo pensiero ha preso il posto della forza conferendogli una coloritura decisamente monistica) è il concetto chiave. Ma egli non può che essere a questo punto accecato da un ottimismo che lo porta a trascurare o a minimizzare l’aspetto oscuro e terribile della realtà, che si percepisce non tanto con lo sguardo dell’astrofisico o del fisico nucleare, che qui sembra costituire il riferimento dominante, ma con quello del biologo e dell’etologo, insomma del naturalista come osservatore della vita, dei suoi ritmi e delle sue manifestazioni. L’accecamento di Mancuso davanti alla dura realtà dell’ordine naturale emerge anche in affermazioni come questa:
Bruciandolo sul rogo [Giordano Bruno] la mia Chiesa ha tolto all’Occidente la possibilità di fondare il senso della giustizia e del bene sull’ordine naturale. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. (p. 19)
Questa proposizione mi sembra molto rilevante. Da un lato, vi si afferma la bontà dell’ordine naturale e la possibilità che su di esso si fondino la giustizia e il bene degli umani, dall’altro evidentemente si nega che l’ordine e la giustizia possano essere basati su qualcosa di diverso dall’ordine naturale. Ed è ovvio che l’ordine naturale immaginato debba essere giusto. Ma è anche chiaro che se l’essere è energia, e la natura è ordinata e giusta, tutto ciò che vi accade deve allora riferirsi ad un ordine giusto: scontri di galassie, terremoti, esplosioni di stelle e pianeti e vulcani, ma anche scontri tra esseri viventi, uccisioni e malattie, tutto deve rientrare nell’ordine. Altrimenti nel pensiero che pensa la natura come ordine intrinsecamente saggio si aprono delle falle. Da dove verrebbe ciò che non può non apparire come disordine? In verità, l’ordine che appare ai miei occhi è il frutto di una interpretazione. Benché Mancuso affermi che l’evoluzione è un fatto, e l’evoluzionismo una teoria (p. 14) ( a me risulta che l’evoluzione sia ciò che una teoria afferma essere un fatto, e per niente un fatto di cui si abbia una qualche esperienza, a meno di intendere per fatto qualcosa di piuttosto vago), egli sembra propendere per una visione solidaristica dell’evoluzione stessa (facendomi pensare che anche le interpretazioni dipendano da temperamenti e propensioni personali). Poiché il movimento della natura è impersonale, scrive il teologo, talvolta vi si verificano degli errori (guarda un po’, e chi li giudica tali?), che sarebbero delle casualità che fanno male a qualcuno. Ma, insomma, nell’insieme tutto va piuttosto bene, è ordine e armonia. Dunque l’asteroide precipitato sulla terra che annienta miliardi di vite e fa scomparire i dinosauri (se è buona quella teoria), e se fosse un po’ più grosso forse annienterebbe il pianeta, cos’è, un errore un po’ più grosso di quello per cui è scoppiata la peste nera del Trecento?
Grande questione è quella della forza, e del suo rapporto con l’amore. Qui è anche questione terminologica. Poiché forte si può predicare di molti nomi, e la forza è una caratteristica che, nel senso di durezza, impenetrabilità, ecc. si può attribuire anche a questo tavolo. Ma la forza di cui parla Simone Weil è anzitutto quella che si declina come violenta sottomissione di un altro essere. E come suo asservimento, riduzione a cosa, o uccisione. Se qui noi perdiamo la distinzione tra l’umano e l’animale che a suo fondamento ha il segno, per cui l’umano è essere significante, noi ci perdiamo in una selva oscura. Poiché nel mondo animale la forza è senza dubbio sovrana. Basta pensare ai rituali d’amore di tutte le specie, che consistono sempre in prove di forza, talvolta sanguinose e perfino mortali, seppur per accidens, prove mediante le quali il più forte accede alla fecondazione e il più debole ne è escluso. E pensiamo solo a questo: l’aquila (l’animale più nobile in assoluto all’interno della simbologia umana universale) depone solitamente due uova, ad alcuni giorni di distanza l’uno dall’altro. Ne nascono due pulcini , e quando nasce il secondo si trova a competere per il cibo portato nel nido con un fratello più grosso e potente, e solitamente finisce ucciso e mangiato da lui. Questo è l’ordine naturale, non è un errore. Ora, o a quest’amore diamo un senso così non più umano troppo umano da perdere qualsiasi rapporto con ciò che intendiamo normalmente con la parola amore, o facciamo la figura degli ingenui e dei vanamente ottimisti.
Prima anch’io sostenevo che tra la forza e l’amore vi fosse una differenza qualitativa, nel senso che se c’era la forza non vi poteva essere l’amore, e se c’era l’amore non vi poteva essere la forza. Ora invece penso che tra le due realtà vi sia solo una differenza quantitativa, nel senso che l’amore è sempre forza, ma forza più intelligente, più ordinata e quindi più stabile, per così dire, più forte. L’amore è la forza più intensa che c’è. (p. 22)
Dal mio essere natura-physis, penso al contrario io, nascono anche la mia aggressività verso i maschi della mia specie, la mia ricerca dello spazio vitale, lo spirito di branco, la sopraffazione del più debole, ecc.
Il bene, la volontà di fare il bene, non nasce dalla nostra buona volontà, ma molto più profondamente dal nostro essere natura-physis. Il fondamento dell’etica è fisico (p. 24)
Ma vedremo domani che anche in questo libro su questo punto non vi è una totale coerenza. Poiché se il fondamento dell’etica fosse fisico, non si dovrebbe mai chiamare in causa alcuna trascendenza.
A me sembra che la “posta in gioco” venga continuamente “traslata” dal discorso che la riveste. Energia quale fondamento di un monismo razionalmente inattaccabile? Benissimo: sappiamo oggi che anche la materia è fatta di energia “compressa”, ed il nostro stupore fondamentale si può configurare nei riguardi dell’esistenza stessa di una materia/energia dotata di tali “incredibili” capacità evolutive. Su questo mistero primario concordano tutti, anche perché, com’è noto, della materia/energia stessa non cogliamo altro che un insieme di relazioni astratte (matematiche) e di semi-inesplicabili “qualia”. Vogliamo allora metterci ad “adorare” questo mistero, ovvero la materia/energia/esistenza in se stessa? Siamo liberissimi di farlo, si tratterebbe di un panteismo inconfutabile almeno quanto una visione opposta che veda in questa stessa materia/energia un male assoluto ed irrimediabile. E’ chiaro che da qui in poi il discorso diventa prettamente sentimentale, non possiamo cioè fare altro che evocare immagini (come la dentatura dei carnivori) che spostino la sottolineatura emotiva verso l’uno o verso l’altro polo. L’emersione del segno, ovvero, nei termini di Damasio, della possibilità di una “coscienza autobiografica”, nella specie umana, ci permette davvero di affermare l’esistenza di una realtà “trascendente” la materia/energia? La risposta non sembra così scontata, quindi inviterei Fabio a cercare di sottolineare quanto più possibile questo passaggio critico. In ogni caso rimane secondo me un abisso fra ciò che una simile ipotesi ci consente di estrapolare e le calde favole che adoperiamo per ripararci dal gelo dell’evidenza, che ci parla di principi ciechi, ancorché potentissimi, decretando al contempo la nostra TOTALE irrilevanza, in quanto saremmo soltanto configurazioni complesse e fragilissime, assolutamente transitorie, di questo substrato miracoloso. La “posta in gioco” rimane dunque l’esistenza di una dimensione spirituale in grado di accogliere entità (comunque le si vogliano strutturare) che siano “più che umane” in termini di coscienza, e non dipendano dalle fragili configurazioni di materia/energia. E che ce ne faremmo di divinità incoscienti? Come potremmo “proiettarci” in esse? Ci serve una divinità che possa “salvare”, se non proprio noi, almeno ciò che di questa esistenza, che abbiamo avuto la ventura di testimoniare, ci pare così malinconicamente prezioso. E qui, ancora una volta, ritorniamo nel sentimentale. Se poi, facendo leva sui limiti del linguaggio, ci si ingegna a ribaltare totalmente i rapporti di esplicazione facendo della materia/energia stessa una docile creazione di un fantomatico “spirito”, beh, questo fa chiaramente parte dell’elemento patetico della condizione umana: un adattamento via software ai limiti dell’hardware, per così dire.
Il tuo pensiero è chiaro. Se una risposta può esserci da parte mia a questo commento, Elio, sarà nei prossimi post.
Il 1 novembre posterò su LPELS un testo di Daniel Ange che fa giustizia del tentativo di fondere cristianesimo e mistica naturale. Ve lo raccomando, Elio e Fabio.
Non lo mancherò, Valter.
Grazie Fabio, la tua trattazione si sta svolgendo in maniera davvero avvincente.