Negroland

jeff18

Penso che tutti coloro che in Italia si occupano in qualsiasi modo di immigrazione, di integrazione e di razzismo dovrebbero leggere questo libro di Margo Jefferson, Negroland (Negroland, 2015, trad. it di S. Antonelli, edito in Italia da 66thand2nd nel 2017). Perché capirebbero (forse) anzitutto che lo stesso termine razza non ha ovunque nel mondo la stessa risonanza, lo stesso significato sociale e culturale, la stessa aura.
Nata a Chicago nel 1947 da una famiglia benestante, la Jefferson è una critica letteraria e docente universitaria di successo. In questo libro svolge un’acuta e anche faticosa e sofferta analisi della propria vita e del gruppo sociale cui per nascita appartiene, quello della borghesia di colore integrata e benestante (di colore? negra? nera? afroamericana? con lontani antenati schiavi? non-bianca? di sangue misto? quanto misto?). Quello che balza ai miei occhi e risalta con più forza dopo aver letto questo libro è l’evidente impossibilità del gruppo sociale cui Margo Jefferson appartiene, e anzitutto di lei stessa, di rinunciare all’uso della parola razza, dell’aggettivo razziale. Non le passa nemmeno per la testa di affermare chiaramente quello che per un qualsiasi progressista europeo è una certezza, ormai un dogma: la razza non esiste. Su questa impossibilità di rinuncia alla razza da parte di una intellettuale progressista e femminista afroamericana mi piacerebbe che vi fosse in Italia una discussione nell’ambito della intellighenzia di sinistra (e non solo). La questione si pone in termini molto problematici (tutto il libro in verità è problematico). Mi limito a riportare alcune righe delle ultime pagine.

Ci sono altri tipi di shock razziali: le epifanie estatiche, il terrore improvviso. Non è vero che la razza sta semplicemente lì. Meglio dire piuttosto che tu e la tua gente avete un destino di cui farvi carico. Tutti voi, quell’essere singolo che è stranamente diventato plurale, siete stati presi e collocati al centro dell’attenzione del mondo. Tu e la tua gente non condividete solo un passato, ma anche l’aspetto esteriore e la gestualità, i modi di parlare, di muoversi, di stare al mondo che gli altri oltraggiano, desiderano, discutono. (pp. 249 -250).

Se non altro quando ero piccola la razza contava. Se non altro la razza infiammava la nazione. Non il genere sessuale. (p. 250)

Di qualunque razza fossero, le ragazze della mia generazione che potevano contare su una sicurezza sia economica sia culturale pensavano che certi diritti fossero scontati. (p. 251)

Di conseguenza non cadrò nell’errore di valutare quale sia il più importante: la razza, il genere o la classe sociale. Sono gli elementi che si trovano alla base della nostra vita. Sono indispensabili come gli attrezzi e i vestiti. Li usiamo di continuo. Hanno bisogno di manutenzione e aggiornamento continui. Sono indispensabili come il corpo e il respiro, la giustizia e la ragione, la passione e l’immaginazione. Pertanto la questione non è: “qual è la più importante?”, bensì: “In che modo diventano importanti?”.  Genere, razza, classe. Classe, razza, genere… uno e trino, trino e uno. (p. 255)

 

 

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