C’è un vuoto immenso nella memoria storica dei popoli europei, un vuoto che si può toccare con mano in questi nostri anni in cui dall’Atlantico agli Urali è tutto un fermentare di nazionalismi e autonomismi anche violenti: un oblio profondo si è disteso fin dalla fine del primo conflitto mondiale sulle terribili vicende del fronte orientale, quello che dal 1914 vide l’Impero austro-ungarico scontrarsi prima con la Serbia e poi con la Russia. All’Est la Prima Guerra Mondiale non ha avuto quella forma che siamo soliti associarle, che deriva dalla guerra in Francia e Italia: la trincea, gli assalti sanguinosi per conquistare poche centinaia di metri, il massacro statico per così dire. All’Est grandi battaglie di movimento, avanzate e ritirate di centinaia di chilometri, e anche là milioni di morti e feriti e prigionieri. La cui memoria sembra dissolta. Il bel libro di Paolo Rumiz Come cavalli che dormono in piedi (Feltrinelli 2014, io ho in mano la quinta edizione del marzo 2015) è insieme un’appassionata ricerca di testimonianze e una fantasmagoria di un mondo di morti che parlano, cantano e narrano le loro vicende sepolte. Un epos ricchissimo di umanità e di pietà, e insieme lucido penetrante. Una ricerca che tra le motivazioni ha forte quella familiare (il nonno dell’autore combatté, come molti italiani del nordest, sudditi austriaci, sul fronte orientale). Dal solo Trentino furono cinquantamila i ragazzi mandati a combattere contro i Russi, in quella lotta mortale tra due imperi agonizzanti, ragazzi che tornando a casa avrebbero trovato incomprensione e disonore anche se carichi di medaglie per atti di eroismo. Questo è un libro che dovrebbe essere letto nelle scuole: perché mostra quanto sia fragile la nostra Europa, quanto la pace sia precaria, e come le faglie che hanno determinato il grande terremoto della prima catastrofe mondiale siano sempre vive e operanti, dalla Bosnia all’Ucraina, in quell’Est da cui gli Europei dell’Ovest preferiscono in genere distogliere lo sguardo. Rumiz cita spesso canti popolari, come questo che evoca una situazione eternamente ricorrente in tutte le nazioni.
Quando fui sui Monti Scarpazi
miserere sentivo cantar
ti ho cercato tra il vento e i crepazi
ma una croce soltanto ho trovà.
Oh mio sposo eri andato soldato
per difendere l’imperator
ma la morte quassù hai trovato
e mai più non potrai ritornar. (p.15)