Hadzabe

10462446_694330693935867_1723227246951784314_nEdito da Mkuki na Nyota di Dar es Salaam in un numero limitato di copie, questo bellissimo Hadzabe. By The Light of a Million Fires mi è giunto tra le mani grazie alla prontezza con cui l’ho ordinato via internet dopo aver letto la sua presentazione sul Sole 24 ore. Si tratta di un libro in cui è mirabile l’intreccio tra le foto e il testo, cui si può unire il suono dei canti tradizionali contenuti nel disco accluso. Gli Hadzabe sono una piccola popolazione della Tanzania, che le indagini genetiche mostrano essersi separata dalle altre circa cinquantamila anni fa. Quasi un fossile vivente anche per la lingua (con consonanti clic) e lo stile di vita, fondato su caccia e raccolta, che è quello dell’umanità intera prima della rivoluzione neolitica.
Peterson riporta le voci, i pensieri, i canti degli Hadzabe, e ci trasporta in un mondo che non è più il nostro da 10.000 anni, e che proprio per questo è di enorme interesse. Gli Hadzabe non coltivano e non allevano nulla. I loro unici animali domestici sono i cani. I maschi vanno a caccia, le femmine raccolgono vegetali vari, tuberi e bacche, di cui il territorio è ricchissimo. Vivono in capanne di frasche, che abbandonano per spostarsi altrove secondo le vicende del clima e gli spostamenti degli animali. Non scavano pozzi, attingendo l’acqua direttamente alle sorgenti. Non incidono dunque minimamente sul territorio, e non lasciano di sé alcuna traccia. Il territorio degli Hadzabe è circondato da villaggi di altre popolazioni, di allevatori e coltivatori. Costoro sono periodicamente colpiti dagli effetti della siccità, e nelle cattive annate soffrono la carestia e la fame. Gli Hadzabe no, la fame non sanno cosa sia. Conoscono una infinita varietà di vegetali commestibili, e in ogni situazione climatica trovano cibo, perché le specie di cui si cibano sono tante, e ce n’è sempre qualcuna a disposizione. Come mangiano moltissimi vegetali, alcuni ricchissimi di vitamine e minerali utili, così anche cacciano quasi ogni forma di vita animale. Sembrano avere una visione in qualche modo laica della vita, per cui con la morte per loro finisce tutto. Non hanno riti funerari e non praticano il culto degli antenati. Uomini e donne abitano due sfere differenti ma cooperanti, la sapienza maschile della caccia e quella femminile della raccolta vivono insieme e si integrano. Gli Hadzabe sono particolarmente amici di un uccello che chiamano tik’iliko, l’indicatore golanera (indicator indicator), che è la loro guida del miele, in una sorta di simbiosi.   L’indicatore è l’unico uccello che possa nutrirsi della cera delle api selvatiche, mentre gli Hadzabe sono ghiotti del miele. L’uccello sa che se rivela agli umani il luogo in cui si trovano i nidi quelli li saccheggeranno, e lui potrà approfittare dei resti. Quindi gli Hadzabe sono sempre attenti ai richiami del  tik’iliko  e lo seguono. Per il resto, cacciano e uccidono molti animali, senza alcun senso di colpa e senza alcuna forma di preghiera o rito espiatorio. Tra le altre cose, mi sembra che uno studio della cultura hadza potrebbe mettere seriamente in questione l’idea (che ho sempre trovato debolmente fondata) di René Girard che la caccia ai grossi animali sia un derivato di precedenti riti sacrificali in cui la vittima sarebbe stata un umano. Gli Hadzabe non praticano riti sacrificali di alcun tipo, e la loro società non conosce il meccanismo del capro espiatorio. Tra l’altro, in essa il singolo gode di grande autonomia e libertà di spostarsi da un gruppo ad un altro. La tradizione hadza ovviamente è solo orale. Peterson riporta il mito d’origine degli Hadzabe come lo ha ascoltato, narrato da un anziano. Ne riporto l’inizio.  Trovo interessante, tra le altre cose, il sorgere degli Hadzabe dai babbuini. Nel mito in questione altri gruppi umani “appaiono” successivamente, senza che ne venga indicata l’origine.

«All’inizio noi eravamo babbuini. Un giorno Haine [ Dio] inviò alcuni babbuini  nel bosco con l’incarico di procurargli del cibo, e altri babbuini lungo il fiume, affinché gli portassero acqua. Quelli che dovevano cercare il cibo ritornarono ben presto, carichi di frutti e radici. Per la fatica avevano sete, e aspettavano con ansia il ritorno di quelli che dovevano portare l’acqua. Ma quei babbuini non tornavano. Attesero a lungo. Mentre il sole si alzava sempre più in alto nel cielo continuarono ad aspettare per tutte le ore più calde. Le loro bocche erano sempre più secche. Ma aspettarono, finché Haine perse la pazienza e decise che scendessero al fiume a vedere che cos’era accaduto agli altri babbuini. Subito andarono, e mentre si avvicinavano alle rive udirono i gridolini e i tonfi dei loro compagni che si stavano divertendo nell’acqua, e li videro che stavano facendo il bagno, del tutto dimentichi di loro e di Haine. Allora Haine si infuriò e chiamò a sé tutti i babbuini. Separò quelli che aveva inviato a prendere cibo da quelli che dovevano portare l’acqua. Al primo gruppo Haine disse: “D’ora in avanti voi sarete Hadzabe”. Agli altri disse: “Voi continuerete ad essere babbuini”. Una volta che Haine ebbe separato i due gruppi, ordinò agli Hadzabe: “Voi vivrete nella boscaglia, e mangerete bacche e tuberi e il frutto dell’albero baobab. Ma soprattutto voi mangerete carne”. Poi Haine si rivolse ai babbuini che dovevano rimanere babbuini, e disse loro: “Voi vivrete nella boscaglia, e mangerete bacche e tuberi, e anche mais e patate dolci se li troverete. E quando vedrete un hadza scapperete gridando impauriti, perché gli Hadzabe mangiano carne”. »(pp. 9-10)

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