A trecento miglia da Alessandria. Sulle basse colline dell’entroterra, dove la sabbia continuamente si muove. Là è seduto un giovane monaco. Alle sue spalle il deserto immensa distesa, senza vita senza misura, abbacinante riflesso sull’orizzonte della volta senza nuvole di blu. Non sta ferma ai suoi piedi la sabbia, rivoletti gialli che scendono, mulinelli di fumo giallo dietro di lui, brezze dell’estate potente.
In basso c’è una stretta valle, e sulla parete di pietra che sta di fronte si vedono caverne che sono tombe, e grandi cave antiche, con colonne e obelischi incompiuti, abbandonati dagli operai dei secoli passati. La sabbia scende e si accumula intorno ad essi, le loro cime sono coperte di arida neve. Ovunque silenzio. Desolazione. La tomba di una nazione morta in una terra che muore.
E là lui sta seduto, gioioso, sopra tutto questo, pieno di vita giovinezza e salute e bellezza. Un giovane Apollo del deserto. Indossa una logora pelle di pecora stretta da una cintura di cuoio. Splendono sotto il sole i suoi lunghi capelli neri, sulle guance scure vedi la primavera di una sana virilità. Membra forti e abbronzate, resistenti alla fatica del lavoro, mani dure. Occhi scintillanti rivelano fantasia, passione, pensiero audace: nulla a che fare con questo luogo. Tra le tombe. Che cosa sta facendo là questa splendida giovane vita?
Se lo chiede anche lui, e si passa la mano sulla fronte, a scacciare un sogno. Si alza con un sospiro, si incammina lungo le rocce scrutando il terreno. Cerca legna da ardere per la sua comunità. Deve accontentarsi di sterpi, ma ogni tanto trova frammenti di antiche travi, da una cava o da una rovina. Il legno sta diventando di giorno in giorno più scarso intorno alla laura di Pambo, a Scetis. Prima di aver raccolto la sua quantità giornaliera il ragazzo si trova molto lontano da casa. Lontano come mai prima.
Di colpo, dove la valle stretta piega, una visione ai suoi occhi, nuova. Un tempio, scavato nella parete di arenaria. Una piattaforma cosparsa di travi e di attrezzi che stanno andando in polvere. E qua e là nella sabbia biancheggia un cranio. Forse di qualche operaio massacrato mentre lavorava, in una delle infinite guerre dei tempi lontani.
Pambo è il suo padre spirituale. Il solo padre che lui abbia conosciuto, perché i suoi primi ricordi sono della laura e della cella del vecchio. Pambo gli ha detto che in giro ci sono tanti resti dell’antica idolatria. Gli ha proibito di entrare nei templi – non devi nemmeno avvicinarti! – Ma dall’altura è facile scendere alla piattaforma. Una tentazione tutto quel legno, una bella provvista. Il ragazzo pensa di scendere, raccogliere qualche pezzo e tornare indietro. Dirà a Pambo del tesoro che ha scoperto. Gli chiederà il permesso di ritornare a prendere legna in questo luogo.
Scende. Cerca di tenere gli occhi bassi, e vede e non vede. Blu e cremisi le antiche immagini dipinte impure e attraenti. Splendono ancora nella desolazione, l’aria secca non le offende. Giovane è, e curioso. E il diavolo sulle menti giovani lavora. Il diavolo, che lui sente continua minaccia, da cui invoca liberazione notte e giorno. Si fa il segno della croce e prega: «O Signore, distogli il mio sguardo, che non si posi sulle vanità!». Così prega, ma guarda. E chi potrebbe non guardare quei quattro re colossali? Siedono corrucciati, sulle ginocchia immense mani, il loro riposo senza fine sostiene la montagna sulle loro teste. I loro grandi occhi fissi su di lui: come potrebbe chinarsi a raccogliere la legna sotto quegli sguardi?
Intorno alle ginocchia e ai troni mistici caratteri incisi. Simboli, righe di simboli. L’antica sapienza d’Egitto. Se l’uomo di Dio Mosè l’aveva conosciuta allora, perché lui ora no? Ma cosa conosce lui del grande mondo, del passato del presente del futuro? Solo un misero frammento, una briciola. Quei re seduti, grandi, loro devono aver saputo tutto. Le loro labbra sottili si stanno aprendo per parlargli. Ditemi! Ditemi! Il loro sorriso diviene un ghigno, scende su di lui da quelle altezze di potere e di sapienza. Un tranquillo disprezzo per un giovane straccione che sta lì, a raccogliere i resti della loro maestà. Lui non osa più sollevare lo sguardo ai loro volti. Guarda al di là di loro, dentro gli spazi vuoti del tempio. Un abisso di verde ombra fresca, pilastro dopo pilastro, sempre più profondo, una notte. Ma da muri e colonne si rivelano ai suoi occhi arabeschi stupendi lunghe linee di storie dipinte: trionfi e opere, file di prigionieri dalle vesti straniere strane, e strani animali, e tributi da terre lontanissime. E schiere di dame alle feste, la testa coronata di fiori, in ogni mano fiori di loto, e schiavi con vino e profumi. Bambini seduti in grembo alle donne, e a fianco i loro mariti. E fanciulle danzanti vestite di nulla, cinte d’oro, in mezzo alla folla le membra sinuose.
Che significa tutto questo? Perché tutto questo è accaduto? Perché per secoli e millenni il grande mondo è andato avanti così? Bere, mangiare, sposarsi, senza conoscere nulla di meglio… Ma come potevano conoscere che c’è qualcosa di meglio? I loro antenati avevano perduto la luce. Tanto tempo prima che loro nascessero. E Cristo è venuto tanto tempo dopo la loro morte. Come potevano conoscere? E adesso tutti loro sono nell’inferno, tutti. Ognuna di quelle dame che si vedono là, coi loro riccioli, le ghirlande, i collari spendenti e i fiori di loto e le vesti diafane. E quella là che mostra il suo corpo snello, che da viva sorrideva dolcemente e si muoveva con grazia e ha avuto amore e bambini e amiche, e mai nemmeno una volta ha potuto pensare a quello che le sarebbe accaduto alla fine. Quello che doveva accaderle. Lei, quella, lei ora è all’inferno, tra le fiamme per sempre, per tutta l’eternità, là nell’inferno abisso sotto i suoi piedi. Fissa le pietre del pavimento. Vorrebbe passarle con lo sguardo. Se l’occhio della fede potesse arrivare laggiù… Eccola nelle fiamme divoranti, che si contorce, che brucia come un tizzone. Una agonia che non finisce mai. Provarla per un momento, per sapere… E trema. Una volta si è scottato col fuoco le mani. Ricorda il bruciore, ricorda bene cosa è stato. E lei sta sopportando un dolore diecimila volte maggiore, e per sempre. Lei grida, che gli diano una goccia d’acqua per raffreddare la lingua. Un grido. Un urlo che non ha mai sentito da un essere umano. Tranne una volta. Quando un ragazzino che faceva il bagno nel Nilo è stato tirato giù da un coccodrillo. Era lontano, presso la riva opposta del fiume. Gli è giunto debole quell’urlo, ma terribile, intollerabile per giorni e giorni risuonando nelle orecchie. E che orrore risuonerà per sempre per quelle volte di fuoco. Lui non regge il pensiero. Ma come può essere? Per il peccato di Adamo milioni di esseri umani bruciano per sempre. Dio fa questo, Dio è giusto?
Dio mio, è stata una tentazione del Nemico? Sono entrato nello spazio proibito, dove ci sono i demoni. Sono qua, loro, intorno ai loro antichi santuari… Ho permesso ai miei occhi di godere le abominazioni dei pagani! Ho concesso uno spazio al demonio! Devo scappare a casa, confessare tutto al padre. Mi punirà come merito, pregherà per me. Mi perdonerà. Ma potrò dirgli tutto? Oserò confessargli la verità intera? Questa fame di conoscenza che mi divora… Vedere il grande mondo. La mia fame è cresciuta lentamente, giorno dopo giorno. Adesso fa spavento. Non potrò più restare nel deserto. Ma questo mondo che ha mandato tutte queste anime nell’inferno, questo mondo davvero è così cattivo come dicono i monaci? Deve essere cattivo, altrimenti come potrebbero essere questi i suoi frutti. Ma è un pensiero tremendo, troppo per poter essere accettato così semplicemente sulla parola… No! No! Devo andare. Devo vedere.
