Ormai è una verità stabilita: tra i ricoverati negli ospedali psichiatrici (morocomi, frenocomi, manicomi) dei tempi andati, una gran parte era costituita da disabili mentali, che oggi sarebbero inclusi nello spettro dell’autismo. Di questo elemento ogni ricerca che tocchi l’istituzione manicomiale deve tenere conto. Come ex veneziano e come padre di un ragazzo autistico a basso funzionamento sono stato invogliato alla lettura di A sé e agli altri, a cura di C. Russo, Michele Capararo ed Enrico Valtellina (Mimesis 2013). Storia della manicomializzazione dell’autismo e delle altre disabilità relazionali nelle cartelle cliniche di S. Servolo: il sottotitolo del libro è esplicativo, ma anche problematico. Si tratta di un testo complesso, di un tessuto di saggi di vari autori (9, di differente formazione) che hanno al centro la lettura di cartelle cliniche del manicomio di S. Servolo a Venezia, redatte in un ampio arco di anni. Cartelle talvolta ricche di informazioni, più spesso tristemente scarne, quasi vuote, ripetitive, comunicanti un sostanziale disinteresse dell’istituzione e di chi vi operava per l’altro, per il ricoverato, e per la sua sofferenza.
Un piccolo inciso personale. Ai miei ricordi veneziani degli anni Cinquanta e Sessanta appartengono espressioni allora ricorrenti sulla bocca della gente, anche per strada, frequentissime: «El vién fóra da S. Sèrvoło!» (viene fuori da S. Servolo!); «Te mando a S. Sèrvoło!» (ti mando a S. Servolo!) «Fate védar da Fàtovich!» (Fatti vedere da Fattovich!). Quest’ultimo, che diresse il manicomio veneziano maschile di S. Servolo e quello femminile di S. Clemente (siti in due diverse isole della laguna) in qualità di primario dal 1935 al 1969, godeva fama di individuo bizzarro, non meno matto dei matti sui quali usava ampiamente le pratiche della camicia di forza e dell’elettroshock. In quel tempo mio padre era segretario del consiglio provinciale, ed ogni tanto gli capitava di dover andare nell’isola insieme ad assessori e consiglieri. Il dott. Fattovich in quelle occasioni vi svolgeva il ruolo di anfitrione, a modo suo. Mi raccontò mio padre che una volta, essendo la delegazione provinciale invitata a pranzo, il dott. Fattovich la portò a visitare il gabinetto scientifico, ove si profuse in spiegazioni sui numerosi cervelli “anomali” conservati in formalina. Quando si assisero a tavola, la prima pietanza che fu servita agli ospiti perplessi, mentre Fattovich si sganasciava, furono cervella fritte. Un episodio altamente simbolico.
In realtà questo libro, A sé e agli altri, non è propriamente un libro sull’autismo misconosciuto, e nemmeno sulle disabilità relazionalifraintese e interpretate nei modi più diversi, con una sorta di frenesia nomenclatoria, sebbene l’autismo compaia in più luoghi e in più saggi. È un libro sulla psichiatria, sul suo complesso di inferiorità nei confronti degli altri saperi medici, sul suo procedere a tentoni, sul suo frequente adagiarsi nell’inerzia dei luoghi comuni socialmente condivisi e delle ideologie dominanti, sul suo sostanziale fallimento che ha seminato incommensurabili sofferenze. Questo fallimento traspare anche dal moltiplicarsi dei nomi assegnati alle malattie mentali, che si avvicendano in un rampollare inesauribile. Scrive Pietro Barbetta a p. 175 : «… il caos dell’inconscio psichiatrico può essere colto attraverso l’analisi dei significanti diagnostici. Immaginate una grande discarica, ove sono depositate tutte le parole che il discorso psichiatrico ha abbandonato. Ci avviciniamo alla discarica e troviamo parole che spuntano, riemergono secondo come muoviamo i rifiuti per cercare–come homeless, bricoleur, come cani randagi o ratti–qualcosa d’interessante. Ecco che spunta una parola, è già in superficie:oligofrenia. Attaccati per l’asse sintagmatico al suffisso si trovano frenastenia, frenopatia, schizofrenia, ebefrenia, frenetico, frenologia, freniatria, ecc., per l’asse paradigmatico: debolezza mentale, insufficienza, ritardo intellettivo, deficit, quoziente intellettivo, malformazione cognitiva, ecc.» (p. 175)
E l’autismo? Nell’insieme, questo libro è ostile ad ogni riduzionismoneuroscientifico e neurocognitivo, e in più modi sembra mettere in questione la stessa categoria diagnostica, oggi dilagante, di autismo. La sua impostazione fondamentalmente umanistica, che io apprezzo, mi sembra però sostanzialmente rifuggire da un vero confronto con le neuroscienze, confronto sul quale oggi si gioca tutto. Anche se è vero che il proprium del libro è l’intento di far risaltare la storia di San Servolo attraverso alcune vicende umane che lo hanno attraversato, è pur vero che quelle storie sono presentate come esemplari e su di esse ed intorno ad esse si articola una pluralità di discorsi che investono l’oggi della psichiatria. Vediamo solo qualche punto che potrebbe sollecitare l’interesse e la riflessione di chi di autismo si occupa, genitori compresi .
«Il proliferare delle diagnosi ha spinto a parlare di un’ “epidemia” di autismo mentre, come evidenziato da Roy Grinker (Grinker, 2007), Ian Hacking (Hacking, 2008) e Gil Eyal (Eyal & al., 2010), l’epidemia è di carattere culturale: è aumentata l’attenzione per la dimensione relazionale dell’esistenza, conseguentemente per le sue forme atipiche e patologiche. (…) Oggi la dimensione cognitiva è considerata un correlato dipendente dall’attitudine relazionale, il ritardo mentale è stato sussunto dall’autismo (gli allarmisti che invocano fondi per la ricerca sull’autismo a fronte dell’epidemia, non considerano come contestualmente sia venuto meno un numero corrispondente di persone diagnosticate per ritardo mentale).» (E. Valtellina, p. 8)
«… autismo non è un’entità clinica, una patologia individuabile per un’eziologia, ma il contenitore lessicale che raccoglie condizioni disparate, riunite per la comune manifestazione di forme atipiche dell’interazione in presenza.» (Valtellina, p. 9)
Non tutti i saggi del libro mi appaiono compiutamente perspicui. Alcuni, forse per le dimensioni ridotte in cui sono costretti, pongono qualche interrogativo sulla linea di pensiero che li fonda e percorre. Ad esempio quello, molto stimolante, di Andrèe Bella, Follia morale e modernità: la socializzazione impossibile, inizia citando Figure dell’autismo. Delle rappresentazioni in piena evoluzione di Ian Hacking, sostenendo che «parlando di autismo non ci troveremmo di fronte ad un continuum lineare unidimensionale, entro cui ci si può situare a fronte della maggiore o minore gravità dei sintomi, come suggerirebbe la metafora dello spettro, bensì di fronte ad uno spazio che può contenere e descrivere vari tipi di qualità, dimensioni e figure diverse che si interfacciano in modo complesso e multisfaccettato tra loro». E questa è oggi una questione fondamentale. E tuttavia, dopo un’apertura sull’autismo, Bella si sofferma sui casi, descritti nelle cartelle di S. Servolo, del sacerdote Giovanni Rampin (1818-1884) e dell’avventuriero professore di lingue Samuele Mendel(1831-1908). La follia morale (una diagnosi frequente ai loro tempi) di questi due interessanti personaggi non ha nulla a che fare con l’autismo, ma pone la stessa questione, quella delle tecniche di produzione della verità (p. 110). In effetti, vista la dimensione storica di transitorietà e di costruzione sociale di molte patologie psichiatriche c’è da chiedersi se tra cinquant’anni si parlerà ancora di autismo e di spettro autistico o se saranno sopravvenute nuove definizioni, nuove etichette e nuovi cataloghi. Secondo Bella «…l’autismo e la follia morale, in quanto disabilità relazionali, presentano le medesime questioni metafisiche ed epistemologiche in forme e realtà storiche molto diverse». (p.111)
Infine, mi sembra di dover richiamare quella che anche oggi è una prospettiva che, mutatis mutandis, incombe sulle famiglie: «L’assistenza familiare ai malati di mente venne sostenuta durante l’inchiesta sui manicomi italiani, condotta da Cesare Lombroso e Augusto Tamburini nel 1891 in vista di una futura riforma volta a far fronte allo stato di sostanziale degrado in cui versavano i manicomi italiani. […] Tra le problematiche ravvisate dall’inchiesta vi era quella dell’accumulo enorme e sempre crescente di pazzi; tra questi, quelli buoni, tranquilli e idioti, si sarebbero potuti collocare–secondo Lombroso e Tamburini–presso la propria o l’altrui famiglia dietro elargizione di sussidi.» (B. Catini, p. 53, nota 13).
Grazie di questo bel commento. Difficile confrontarsi con una lobby che riceve milioni di dollari per dimostrare che l’uomo non ha responsabilità e che tutto ciò che fa è prodotto da un sistema chimico/elettrico. Tuttavia ci proveremo. Alcuni di noi hanno fatto parte di un programma di ricerca sul “soggetto cerebrale” come nuova forma di soggettivazione condotto dall’Istituto di Medicina Sociale dell’Università di Stato di Rio de Janeiro.
Credo che la relazione mente-cervello sarà un campo di tensione formidabile per la scienza e l’intera cultura dei prossimi decenni. Se ci sarà.