Il convoglio rimase per tutto il giorno vicino al fiume e si mise in marcia al calar del sole.
Egòruška si mise di nuovo a giacere sul sacco. Il carro carico cigolava sordamente e traballava. Pantelèj camminava da un lato pestando i piedi, battendosi i fianchi, borbottando; come il giorno innanzi, nell’aria sussurrava la musica della steppa.
Egòruška giaceva supino con le braccia sotto la testa, guardando il cielo. Vide il tramonto accendersi e poi spegnersi; gli angeli custodi, ricoprendo l’orizzonte con le loro ali dorate, si preparavano al riposo: la giornata era trascorsa felicemente, una calma e benefica notte scendeva, ed essi potevano rimanere tranquilli nella propria dimora, in cielo… Egòruška vide la luce oscurarsi, a poco a poco, calare sulla terra la caligine notturna, accendersi una dopo l’altra le stelle.
Anton Cechov, Racconti, Garzanti 1966, trad. E. Lo Gatto, pp.307-8
In poche pagine della grande letteratura si dipinge con la stessa asciutta poesia il mondo ancora sottomesso all’incanto, come in queste righe del grande racconto La steppa di Anton Cechov . Il lungo viaggio, il lento viaggio nella grande steppa ucraina del fanciullo Egòruška, mandato a studiare in una città, viaggio di iniziazione, dai molteplici significati, conosce questo intensissimo momento. Cullato dal movimento del carro, il fanciullo guarda il cielo: contempla, prima di assopirsi, le regolari mutazioni del cielo. Egli non è però ancora filosofo, e ai sogni della metafisica non è ancora giunto. Egli vede nei bagliori della volta eterea le ali degli angeli custodi. Non è scienziato. Egli non appartiene ancora al mondo moderno. Ma lo scrittore sì. Cento anni sono passati da quando Kant ha scritto le celeberrime prime righe della conclusione della Critica della ragion pratica, e il cielo stellato sopra di me non riempie più l’animo dell’uomo occidentale di ammirazione e venerazione, bensì:
Quando a lungo si guarda il cielo profondo, senza staccare gli occhi, non si sa perché i pensieri e l’anima si fondono nella coscienza della nostra solitudine. Ci si sente irrimediabilmente soli, e quanto si era prima considerato vicino, come se fosse cosa propria, diviene infinitamente lontano e senza più valore. Le stelle che guardano dal cielo già da migliaia di anni, lo stesso incomprensibile cielo e la caligine, indifferenti alla breve vita dell’uomo, quando si stia a faccia a faccia con essi e si cerchi di indagarne il senso, opprimono inesplicabilmente l’anima col loro silenzio; e viene in mente la solitudine che attende ciascuno di noi nella tomba, e l’essenza stessa della vita si presenta terribile, disperata.
Solitudine radicale, estraniazione dal cosmo, insensatezza, disperazione: quattro caratteri del modo di esistere nichilista. È ciò senza legami col disincanto operato dalla scienza moderna e con la rottura dello specchio tolemaico?
Eppure, “la solitudine che attende ciascuno di noi nella tomba” è una proiezione palesemente assurda (non ricordo solitudini, nell’abisso “incolmabile” di tempo che ha preceduto il mio affacciarmi al mondo). Sono incline a pensare che il nichilismo sia una scelta per nulla imputabile alla scienza. Un modo contorto per soffrire certe cose evitando di soffrirne certe altre, forse più temute.
Sì, il fatto è che il nichilismo letterario/filosofico occidentale è romantico. Ed è in realtà comunque sempre un paradosso che un ente pensi non solo la non esistenza di sé stesso, ma l’assolutamente irrappresentabile per sé.