Il suicidio di Monicelli è argomento di dicussione, poiché in causa sono visioni del mondo, princìpi, e in fondo il concetto del senso dell’essere umani. È in questione l’idea di libertà del soggetto, che il pensiero corrente concepisce come individuo, ed è in gioco l’idea di natura, in quanto si oppone alla libertà di scelta del proprio morire, invocata dal radicalismo borghese contemporaneo, quella di morte naturale. Personalmente, ritengo che il concetto di morte naturale sia estremamente problematico nella congiuntura tecno-scientifica attuale, e nello stesso tempo insostenibile l’idea di una sovranità assoluta dell’individuo sulla propria fine. Senza chiamare in causa la religione e la fede in Dio, mi rifaccio a Leopardi, che non si suicidò sebbene oppresso da un peso dell’esistere in una misura difficilmente eguagliabile. L’autodeterminazione del modo del proprio morire è pensabile solo in rapporto alla rappresentazione che ci si dà del proprio essere umani.
Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro ragione l’accomodar l’animo alla vita: certamente quello è un atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo. E perché anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta, e per l’atrocità del caso? Io so bene che non dee l’animo del sapiente essere troppo molle; né lasciarsi vincere dalla pietà e dal cordoglio in guisa, che egli ne sia perturbato, che cada a terra, che ceda e che venga meno come vile, che si trascorra a lagrime smoderate, ad atti non degni della stabilità di colui che ha pieno e chiaro conoscimento della condizione umana. Ma questa fortezza d’animo si vuole usare in quegli accidenti tristi che vengono dalla fortuna, e che non si possono evitare; non abusarla in privarci spontaneamente, per sempre, della vista, del colloquio, della consuetudine dei nostri cari. Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni; o non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici; è di non curante d’altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo.
In ultimo, Porfirio mio, le molestie e i mali della vita, benché molti e continui, pur quando, come in te oggi si verifica, non hanno luogo infortuni e calamità straordinarie, o dolori acerbi del corpo; non sono malagevoli da tollerare; massime ad uomo saggio e forte, come tu sei. E la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla. Perciò, senza voler ponderare la cosa troppo curiosamente; per ogni lieve causa che se gli offerisca di appigliarsi piuttosto a quella prima parte che a questa, non dovria ricusare di farlo. E pregatone da un amico, perché non avrebbe a compiacergliene? Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin qui è durata l’amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l’anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce. Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che cosi, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Si bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora. [l grassetto è mio] (Dal Dialogo di Plotino e di Porfirio – Operette morali).
Se anche i “prossimi” traessero sollievo dal suicidio (dalla morte scelta) del malato dolente senza speranza di guarigione, se questi, discutendo con loro, li trovasse d’accordo col proprio progetto, la riflessione dovrebbe giungere a una conclusione diversa, o no?
Mi pare, voglio dire, che definire “atto fiero e inumano” (“fiero” significa “feroce, bestiale”, vero?) il suicidio per le sue conseguenze sociali si basi su una critica/analisi incompleta delle relazioni sociali stesse, che potrebbero/dovrebbero (forse) essere improntate a una maggiore trasparenza, o problematizzazione di certi “dati di fatto”.
Spiego ancora: in che cosa una famiglia riunita attorno al proprio membro malato senza prospettiva di guarigione che ha scelto di morire in pace, in relativa serenità, sarebbe meno umana di una famiglia che veglia il medesimo malato nella lenta agonia?
Non comprendo, poi, l’essenza e l’importanza del destino e dei “mali della nostra specie”: perché dovremmo sentirci obbligati a tollerare sofferenze capitate per caso, che giudichiamo intollerabili e che risultano non altrimenti eliminabili?
Diritto alla morte, forse anche alla propria, è un paradosso. Come può essere un diritto qualcosa che avverrà comunque. Ma tant’è, lo sterile rosario dei diritti che la modernità propone come rendiconto dell’umano esistere prevede anche questo. Rimane un fatto che rende insostenibile la tesi di coloro che rivendicando il diritto di morire come a loro pare credono di riaffermare la piena e libera disponibilità sul proprio essere. Il fatto è questo: che sia la fecondazione artificiale, che sia la tecnica riproduttiva che prima o poi abolirà l’utero, che sia il laboratorio di Mefistofele, in ogni caso la vita che il suicida rivendica come propria gli è stata data da un altro (e la minuscolo è voluta). Come si possa revocare questo dato togliendosi di mezzo è per me un mistero, perché in ogni caso se diventi libero perché ti dai la morte sei sempre secondo rispetto a chi ti ha messo al mondo, ergo, libero non lo sei. Che poi per autodeterminarti hai bisogno di toglierti di mezzo… fallo ma non venirci a raccontare che in questo modo ti sei riappropriato del tuo essere… A Monicelli, il cinico, riserverei battute ugualmente ciniche: potevi farlo prima.
Io penso che nessuna delle due posizioni che si scontrano abbia la capacità di conquistare una superiorità dal punto di vista del fondamento, escludendo l’elemento fede. Nella mia visione, infatti, oggi sul cosiddetto fine vita c’è uno scontro tra due fedi, non una disputa con argomenti razionali.
Il mio tentativo di argomentazione (finitezza ontologica dell’uomo e conseguente impossibilità a motivare in base all’autodeterminazione del soggetto o individuo la scelta del suicidio) non coinvolge la fede. Certo che la posizione che attualmente viene fatta passare come non fideistica in realtà è quella che più di ogni altra è debitrice di assunti non provati o perlomeno contraddetti dal dato di realtà. L’individuo assoluto, libero in quanto assoluto, deve per necessità fare a meno del dato empirico della sua nascita. Si proietta subito in direzione della fine e lì in fondo coaugula tutto il senso del suo esistere. Prima della morte, rifiutata come dato naturale, ma cercata come esito della propria libertà, c’è ben poco. C’è il semplice utilizzo delle cose del mondo; c’è una condizione che si giustifica solo per il suo trascorrere verso l’exitus. Altro non vedo. La mia battutaccia nasce proprio da questa considerazione: se la mia libertà dipende solo dal mio darmi la morte prima questo avviene meglio realizzo la mia libertà. L’aria mortifera della nostra cultura spira inalterata dopo i bagni si sangue del novecento. Non apro il discorso politico perché da quel punto di vista le contraddizioni e i paradossi sono una sequela senza fine, soprattutto a sinistra. La bella morte è un mito fascista, integralmente fascista è pura volontà di potenza.
Per non parlare degli innesti eugenetici ed eutanasici con i loro risvolti sociali, nei quali affonda ogni palingenesi socio-politica ridotta a gestione demografica e malthusiano controllo degli stock umani a vantaggio dell’economia liberista e dei suoi metodi di estrazione dell’efficienza produttiva dalla carne dei popoli. È un panorama ideologico che l’attuale sinistra non vede e non percepisce neppure per sbaglio, inoltrandosi nel fallimento definitivo. Altro che crollo del socialismo reale, qui finisce ogni sinistra.
Potrebbe anche essere, tuttavia, che il gesto del togliersi la vita sia assunto dalla nostra cultura in modo minimalista. L’ego odierno non può, in verità, essere concepito romanticamente, dopo la cultura della Crisi e nel contesto relativistico. Secondo me, si intreccia una serie di paradossi e contraddizioni adialettiche. Rivendicare un diritto assoluto in una sfera relativistica, come fa la cultura radical-borghese, è assurdo.
L’ imput della discussione era il suicidio di Monicelli “novantacinquenne-malato- terminale-di- cancro”: mi pare che non si possa prescindere da questa considerazione e che essa sia ragionevolmente bastevole a delineare contorni ben netti per la stessa.
Per questo, mi sento di sottoscrivere totalmente le riflessioni di Giacomo, posto che, a priori, Fabio dice di non voler richiamare argomentazioni religiose o di fede, le quali, peraltro, dovrebbero attenere alla sfera personale ed intima di ciascuno di noi.
Secondo le argomentazioni di Riccardo De Benedetti, che a sua volta dichiara di non farne riferimento, l’ Uomo è comunque “ostaggio” di qualcun’ altro (seppur minuscolo) per la semplice ragione di non poter auto-determinare la propria origine: a me sembra straniante, nel caso di specie.
Si sta parlando del suicidio di un uomo che ha preferito risparmiare a sé stesso ed a chi l’ amava l’ infamia di dolori forse intollerabili e la pena della perdita di dignità e decoro che talvolta lo stadio finale di una malattia letale comporta. Alltroché “fuori dall’ umano”; si tratta, semmai, di un atto pietoso che ha richiesto una non indifferente dose di coraggio e che merita silenzio e totale rispetto.
Se non ricordo male, inoltre, il Leopardi, nel giudicare implicitamente egoista l’ atto del suicida, non si riferiva a situazioni simili, ma, semmai, ad una forma di “mal del vivere” tutta metafisica, anzi un “fastidio della vita”, simile piuttosto a ciò che oggi definiremmo “sindrome depressiva”.
La questione, pertanto è molto, molto diversa.
Non ho nessun motivo per giudicare il gesto di Monicelli, del quale si parla, e ne parlano, come segno, simbolo, che so, allusione, riferimento ecc. a tematiche che esulano dalla sua situazione particolare e aspirano a una significatività diversa e più generale. Quindi se allargo il discorso lo faccio solo in virtù di questa situazione che la discussione pubblica si è arrogata il diritto di estendere. Se Monicelli è un caso esemplare allora sono legittimato a estendere il discorso. Era sua intenzione? Non lo so, di certo molti ne hanno parlato come se il suo gesto avesse questa intenzione e discutendone se ne prende atto. La cultura odierna non vuole considerare la cogenza della nascita: questo purtroppo è un dato di fatto piaccia o no. Mi permetto una battuta, sperando di non offendere nessuno: ma se la vicenda, di Monicelli così di tanti altri malati, si riducesse al preferire di essere risparmiati dalla perdita di dignità (andrebbe poi inteso in cosa consiste questa dignità perché le cose mutano con il mutare dei tempi) in tal caso meglio sarebbe essere risparmiati dalla vita stessa, meglio non essere nati… e sarebbe una saggezza antica, priva di fronzoli e decisamente più virile di quella zuccherosa pietà e paura della sofferenza che spesso sta alla base di tante scelte. Lo dico, a scanso di equivoci, da ex-malato di cancro e da persona che ha accompagnato con la sua famiglia una madre malata di Alzheimer, tenendola in casa, alla tomba con assoluta dignità e amore. Si può fare e quando lo si fa il senso della propria vita muta e raggiunge quella pienezza che la cultura odierna crede si possa raggiungere solo togliendo l’incomodo. Se non posso giudicare chi fa diversamente ho il diritto pieno di criticare la cultura che spinge in quella direzione.
A Morena. Questo che tu dici comporterebbe una gerarchia del dolore. Quello fisico autorizzerebbe il suicidio, quello morale no. Mi pare evidente che questa divisione è arbitraria.
Io non sono d’accordo che di fronte a gesti siffatti la risposta corretta sia un rispettoso silenzio. Gesti come quello di Monicelli, infatti, sono privati solo in apparenza. Il regista era un uomo famoso, e l’evento ha avuto risonanza mediatica immensa. Inoltre, la natura mimetica dell’umano impone che di questi gesti si parli e si discuta. Qui in causa non sono i moventi personali e insondabili del suicida, ma l’inquadramento ideologico che necessariamente il suo atto subisce.
Dissento anche, e totalmente, dall’idea che la religione sia un fatto privato. Non lo è se non all’interno di una visione borghese. La religione ha infatti la funzione primaria di tenere unita la società, è un fatto eminentemente sociale. La fede personale andrebbe concettualmente distinta.
@ Riccardo De Benedetti
La strumentalizzazione in atto da parte dei media è una iattura e il tentativo di consentire la tracimazione della morale nel diritto, a mio avviso, qualcosa di profondamente sbagliato e meschino.
La critica, pertanto, alla cultura cui Lei fa riferimento non mi trova in disaccordo, ma non m’ impedisce neppure di provare ad empatizzare, semplicemente, con la scelta di quell’ uomo, in quel determinato tragico momento della sua vita.
Le confesso, poi, che, seppur con grande amarezza, l’ eco di ciò che Sileno sibila a Mida -quella sua terribile rivelazione “il bene maggiore, per te, sarebbe non esser mai nato…”, mi ha raggiunta molte volte ed in molte occasioni della mia esistenza, ma anche che -consapevole della bizzarria della sorte che dispensa ciecamente i suoi frutti- so bene che essa non può essere generalmente condivisa. Ciò, se non per me, mi allieta per altri. Inoltre, è proprio questo assunto che mi fa scorgere vero eroismo nell’ esperienza umana, quando consapevole.
@Fabio
Ho accoppiato religione e fede con formale leggerezza, in effetti: è come dici tu, non sono neppure lontanamente sinonimi.
Come ho detto sopra, l’ inquadramento ideologico della vicenda ed il tamtam mediatico (che segue a ruota le ultime squallide polemiche di “Vieni via con me”, Englaro, Welby e i Pro-vita”) è una sciagura, talmente morbosa da togliere ad un uomo che ha la ventura d’ essere personaggio pubblico, il diritto al riserbo sulle sue intime scelte e sulla sua morte.
bisogna anche chiarire che: chiunque si suicida compie un atto contro sè stesso, e quindi il male su sè stesso, non contro chi gli sta vicino come nella maggior parte dei casi la ragione comune lascia intendere.
alla base del suicidio c’è sempre un malessere profondo che “gli altri” non sanno comprendere.
troppo semplice girare la medaglia, puntare il dito, vittimizzarsi…
è la comprensione l’unica medicina che può curare questo male.
Apprezzo molto la provocazione di Fabio che citando Leopardi ci consente di staccarci per un momento dai chiacchiericci televisivi e dall’uso e abuso di frasi fatte per riflettere sulla scia di una cultura nostra ormai purtroppo tanto distante dal modo di sentire (e di parlare) dell’attuale intellighenzia.
La religione, e intendo quella Cristiana, è oggi il capro espiatorio per eccellenza, tanto che di tutto si può parlare ma non di Cristo e del suo messaggio per non essere considerati dei trogloditi o quanto meno dei maleducati. E pensare che se non fosse stato per il Cristianesimo il medioevo sarebbe stato per l’Europa (e forse per il mondo) l’azzeramento della civiltà e oggi noi non ce la prenderemmo tanto per le vittime, uomini o animali che siano. Per me un suicidio come quello di cui parliamo, con tutta la pietà che mi ispira, mi ha l’aria di un estremo grido proprio al cielo, non so se di rivolta o di sfida. Un disperatamente voler essere se stessi, di kierkegaardiana memoria.
Che cos’è la vita e che cos’è la morte? Porre queste domande come se noi fossimo degli enti assolutamente naturali non ha senso, poiché, secondo quanto ci dicono gli antropologi, l’uomo è, in realtà, un animale culturale che si è ‘autoallevato’, e questa è la differenza oggettiva rispetto ad altre specie animali, che sono invece allevate dagli uomini. Porsi, dunque, tali domande con l’ottica di un ente naturale significa porsi in una situazione che è già falsa in partenza. Non vi è alcuna possibile risposta naturale, perché gli esseri umani sono inevitabilmente acculturati.
Stabilita questa premessa, occorre riconoscere che la novità oggi consiste nella ‘medicalizzazione’ della morte: questo è un fenomeno nuovo che rientra nelle procedure di razionalizzazione dell’esistenza sociale, laddove tali procedure prescindono dalle credenze religiose di qualsiasi tipo. La ‘medicalizzazione’ ha modificato, per altro, la stessa percezione del suicidio, che si può considerare perciò un caso di eutanasia. È difficile, anche qui, non vedere la differenza rispetto alle concezioni del passato, quando le pratiche suicidarie erano considerate come una delle più alte espressioni della nobiltà e della dignità dell’uomo. E la memoria corre ai versi stupendi con cui Dante celebra nel primo canto del “Purgatorio” il suicidio di Catone l’Uticense: “Libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta”. Il suicidio di Monicelli non rientra, ovviamente, in quest’ultima fattispecie. Semmai mi ha fatto venire in mente, per la sua genesi soggettiva e per le sue modalità oggettive, l’icastica definizione con cui, a futura memoria, Cesare Pavese si pronunciò in merito: “I suicidi sono omicidi timidi”.
Non comprendo bene i concetti di «cogenza della nascita» e di «finitezza ontologica dell’uomo». Mi pare che facciano riferimento a dei dati di fatto, a degli stati – talmente ovvi da essere irrilevanti. («D’accordo: sono qui e non per mia decisione e miei atti. Dunque?”) Non comprendo, voglio dire, perché dal fatto di dipendere, al livello più radicale, cioè quello dell’esistenza, da altro si debbano far discendere conseguenze in merito alla prosecuzione dell’esistenza stessa.
Altra cosa. Autonomia e libertà totali non esistono, nei fatti; la loro negazione ci viene sbattuta in faccia migliaia di volte al giorno da ogni fallimento, fastidio, tragedia, inciampo ecc. (dal fatto stesso che io sono qua e il mondo di fronte a me, separato… Ben più radicale della nascita, mi pare) – senza che ci sia bisogno che qualcuno si faccia avvocato, portavoce della finitezza; o che si debba considerare questa finitezza un valore in sé, una condizione carica di valore in quanto ineliminabile, o anche soltanto un’entità compatta ed eterna. È un intreccio di limiti. Singoli limiti (la morte, per esempio, il suo momento, le sue modalità) possono essere studiati, diventare oggetto di consapevolezza e anche di trasformazione, senza che mai si vinca o si perda una guerra una volta per tutte: non c’è una realizzazione dell’autonomia o della libertà assolute (o una pretesa in tal senso) nella decisione sulla morte – non vedo proprio come una persona sofferente e senza speranza di salute possa pensare a questo: c‘è solo la reazione, forse sensata, di fronte a una situazione critica. In sostanza: non comprendo questa monumentalizzazione della questione.
@Giacomo: la finitezza ontologica dell’uomo è un punto della discussione filosofica occidentale da quando è nata. Ma vedo che l’accetta anche lei dal momento che parla di limiti. La nascita è centrale per qualsiasi discussione intorno al senso delle azioni e della volontà umane. Hannah Arendt ne fa un punto centrale della sua filosofia politica. Nel caso della morte affrettata e anticipata è indubbio che si tratti di un atto volontario e quindi tendenzialmente politico, come subito ha fatto notare la cultura radicale che si è appropriata del gesto di Monicelli per continuare la sua battaglia eutanasica (grande caposaldo della legislazione nazista). Affermare un dato di fatto non significa elevarlo a valore. Non riesco a capire da dove trae la convinzione secondo la quale secondo me la finitezza è un entità compatta ed eterna. Non uso così scriteriatamente la terminologia filosofica: se qualcosa come la nostra esistenza ha un inizio e una fine e l’inizio non dipende da me e al limite posso determinare la fine (anche solo come reazione a qualcosa di insostenibile) parlo di una dimensione quasi pragmatica che solo il linguaggio per esprimerla può dare l’impressione di concettualizzare, ma sempre un dato di fatto dell’esperienza rimane, per quanto lei lo dichiari irrilevante. E dal momento che i discorsi hanno a che fare con la realtà discorrere senza tenerne conto ritengo sia un modo non buono di ragionare. I giornali di oggi sono pieni della monumentalizzazione della morte di Monicelli fino alla gaffe del presidente che parla di “ultimo scatto di volontà”. Per uno che si è buttato dalla finestra a 95 anni effettivamente lo scatto deve essere stato notevole…
Più che un “trionfo della libertà” ( come lo vedono in molti, nella stampa e nei blog), pare una caduta nella disperazione… Forse Monicelli non poteva che saltare nel vuoto , facendo una fine così dura e violenta, perché in Italia non è possibile l’eutanasia. In tal senso, la sua è una morte tragica e beffarda – quasi un dispetto o “zingarata” da “Amici miei” – che è un film tristissimo, in cui si ride per non piangere, alle radici comiche del tragico, se non non del nichismo all’italiana, medio-italiano.
D’altra parte, più in generale, dire sempre sì all’eutanasia significherebbe – con le parole di Jankélévitch ( in “Pensare la morte?”, Raffaello Cortina Editore, Milano 1995), “misconoscere il tempo, la potenza del tempo, l’apertura dell’avvenire, il senso dei possibili: l’evoluzione delle tecniche, l’evoluzione del male, l’evoluzione dei sentimenti del malato nei confronti del suo male”; e, aggiungerei, misconescere le virtù del limite, oggi pensate e vissute come intollerabile barriera dell’Oltreuomo, se non del Superuomo. E’ per questo, forse, che il capo dello Stato Napolitano può parlare di “un estremo scatto di volontà che bisogna rispettare”.
Strano esempio di “rispettabiltà”, comprensibile solo in un clima culturalmente suicidario e mortifero. Per non dire di quella tipica e mortificante tendenza superlaicista a voler ridurre il desiderio e la serietà della vita e della morte ad autogestione ottimale dei bisogni.
P.S. Legale o non legale, da che mondo è mondo, chi vuol darsi la morte perché è “stufo dell’Italia di oggi”, oltre che della malattia, della vecchiaia e della morte, se la dà – dopo, oltre a un’inchiesta, si sale sui tetti a gridare ( come di solito fa la Follia), e si fanno i dibattiti, ma il problema resta.
ERRATA CORRIGE
se non non del nichilismo all’italiana, medio-italiano.
@Gianni: ciao Gianni… condivido il tuo post e la citazione di Jankélévitch è al solito piena di grazia…
Ciao, quando ho saputo della morte di Monicelli,ho cercato qualcosa da leggere in Internet è per primo ho trovato questo http://it.wikipedia.org/wiki/ Mario_Monicelli dove parla della morte suicida del padre, che lui stesso ha trovato morto. Ora essendo lui malato di tumore, vecchio e perchè no,anche stanco col timore di quel che tutti noi forse avremmo paura, ha optato per quel che si chiama”insano gesto”. Vorrei precisare che io sono a favore dell’eutanasia voluta dall’interessato ( questo voglio chiarirlo) e che quindi rispetto la decisione di Monicelli. Il fatto che sia stato un personaggio pubblico o no, non significa che la persona non possa fare ciò che ritiene oportuno e, forse, rifacendomi all’inizio del commento, trovandosi in quella situazione il ricordo di come suo padre aveva messo fine ad una vita sofferta gli ha suggerito questa decisione.Buonanotte a tutti.
L’idea che la persona “possa fare ciò che ritiene opportuno” (sempre? in alcune circostanze?) discende da una rappresentazione dell’umano. Questa rappresentazione varia da cultura a cultura (gli Aztechi non la pensavano come me). Se questa rappresentazione dell’umano è intesa come storicamente variabile e come priva di un fondamento assoluto, allora una rappresentazione vale l’altra, ed è destinata a imporsi, darwinisticamente, quella di volta in volta più forte.
Tra le rappresentazioni più forti della civiltà tardo-Maya figurava anche Ixtab, la « dèa dei suicidi », una corda al collo, gli occhi chiusi nella morte e il corpo in decomposizione. “Bella ciao”, verrebbe voglia d’intonare in falsetto, se non temessi di urtare qualche sensibilità sinistramente tanatofila all’ascolto… Ma a parte Veltroni & C., quello che volevo dire è che forse non a caso le civiltà che, come quella Maya e Azteca, vedevano il suicidio con rispetto e gratitudine per coloro che lo praticavano, si sono estinte. :-)
Perché si deve parlare di tanatofilia in relazione al suicidio o all’eutanasia? Dove si trova l’amore perverso per la morte in una persona che non tollera più il dolore fisico o il degrado delle sue potenzialità di conoscenza ed esperienza o gli obblighi infermieristici che sta imponendo ai propri cari, insomma: la disumanizzazione di sé, del proprio ambiente, la deformazione della rete di affetti in cui è immerso? L’amore per la morte, per i suoi segni è presente piuttosto proprio nei riti di accudimento disperato che circondano l’agonia, negli odori di malattia che impregnano la casa, nell’impronta che storce la quotidianità. Si è, mi pare, questa quotidianità, non dei soggetti puri. Perché se ne percepisco e vivo la distruzione non dovrei poterla accorciare, risparmiare a me e a chi mi sta vicino?
Proprio non capisco questa accusa di voler deformare l’umano, di volerlo oltraggiare, quando lo scopo è esattamente l’opposto.
Ai miei occhi risulta confermata la mia tesi, secondo la quale qui si confrontano due differenti rappresentazioni dell’umano.
Ma l’umano sarà pure qualcosa, al di là delle sue rappresentazioni.
Voglio dire: se le rappresentazioni differiscono sarà a causa di elementi fondanti immotivati, opachi, all’interno di esse. Sarà sufficiente descrivere le rappresentazioni in tutta la loro ampiezza, dai presupposti alle estreme conseguenze, poi indagare gli stessi presupposti, infine cercare i punti deboli (o svelare ulteriori presupposti insospettati e non sottoposti ad analisi) da riformare.
Che senso ha parlare di rappresentazioni che si scontrano fino al prevalere della più forte? Dove è la verità, la descrizioni delle cose – del corpo, delle sue potenzialità, del loro ampliamento – in questo?
E prendo senza problemi in considerazione l’ipotesi di sbagliare io nella mia analisi, visto che sull’eutanasia e su problemi simili ho mutato più volte parere via via che procedeva la mia riflessione.
Faccio poi notare che l’idea di concezioni che si scontrano non sfocia nel prevalere totale dell’una sull’altra annientata: restano superstiti, residuano risentimenti, si avvelena il futuro – in concreto: si opacizzano (si sottraggono alla consapevolezza, alla critica) i presupposti di concezioni a venire. Si prepara dunque il terreno per altre contrapposizioni dichiarate irriducibili.
No, l’umano non esiste al di là della sfera della rappresentazione. L’umano differisce dall’animale proprio in quanto essere che, in luogo di segnali, coi suoi consimili si scambia segni-rappresentazioni. Ovviamente esiste il referente reale della rappresentazione, per esempio il panino che ho in mano, ma il suo significato umano è nella rappresentazione. e questo spiega per qual motivo vi possano essere verità opposte di fronte ad un unico evento.
Non concordo, per il semplice fatto che le capacità di rappresentazione derivano per l’appunto da uno di quei referenti reali, e cioè dal corpo, che con la sua oggettività viene prima e condiziona la rappresentazione. La descrizione del corpo e delle sue potenzialità spiega che cosa è e come si articola la rappresentazione umana delle cose, la aggancia a un parametro ecc.
Tra l’altro è proprio lì, nel corpo, nell’accrescimento delle sue facoltà di conoscenza (quindi di rappresentazione), che si dovrebbe incardinare ogni prescrittività (il fondamento di ogni norma).
L’oggettività del corpo in quanto precedente, e già in quanto oggettiva, appartiene già totalmente alla sfera della rappresentazione, in cui questa oggettività si dice. In quella stessa sfera, io potrei affermare la priorità assoluta dello spirito.