Enrico Mentana è il re dell’informazione-spettacolo. L’attuale TG de La7, che egli dirige e di cui è il divo, è l’esempio migliore di cosa può diventare l’informazione concepita come intrattenimento. Nulla può esplicarne il concetto meglio di quel che possono fare le tre parole più usate da Mentana, durante la mezzora serale in cui troneggia nel suo studio televisivo, ispirandosi forse alla posizione di comando del capitano Kirk dell’astronave Enterprise. Le tre parole sono due aggettivi e un verbo. I due aggettivi sono clamoroso e doveroso. Il verbo è raccontare.
Mentana è un uomo astuto, e conosce alla perfezione i meccanismi della psicologia televisiva italiota. Sa che agli Italiani interessa molto poco la politica estera, e nel suo TG è quasi assente. Sa che agli Italiani le analisi economiche risultano noiose, e dal suo TG l’economia è quasi assente. Sa che agli Italiani l’informazione sui fatti tecnico-scientifici non interessa affatto, e il suo TG non ne fa. Insomma, di quel che accade nel vasto mondo il TG mentaniano non riporta nulla, se non nel caso che il fatto sia clamoroso. Un attacco nucleare a New York sarebbe tale, e verrebbe considerato da Mentana, perché l’audience, unico suo faro, sarebbe alta. Infine di che si occupa Mentana nelle sue chiacchierate che passano per informazione? Si occupa quasi esclusivamente della politica italiana, intesa come scontro tra partiti, inteso come scontro tra leader, intesi come personaggi con caratteri particolari, in grado di fare dichiarazioni clamorose, circa le quali il giornalista, eticamente formato e continuamente proclamante la sua etica, fornisce una informazione doverosa. E siccome è doveroso che il TG sia show, e lo show è tanto più interessante quanto più in esso vi è scontro, ecco che Mentana propone le opinioni contrapposte di altri giornalisti, quello di destra e quello di sinistra. Porro vs Travaglio, Sallusti vs Gomez. Tra teatro dei pupi e wrestling.
E che il notiziario televisivo sia un racconto è reso trasparente dal rapporto tra servizi e discorso del conduttore. La chiacchiera continua, senza soluzione, di Mentana occupa metà del tempo. E questo è: cantami, o Divo, di Berlusconi l’ira funesta (e clamorosa).
Caro Fabio,
nel Paese degli affabulatori, tu ti aspetteresti, per caso, un giornalismo – perdipiù televisivo- di tipo anglosassone?
Appena un po’ lo possiamo riconoscere alla Gabanelli, che quantomeno le sue inchieste le conduce con rigore e non ha perso una soltanto delle innumerevoli cause per querela cui è stata sottoposta.
Il sottile filo che ormai separava la notizia dal racconto, l’ analisi politica dalla propaganda, il rigore professionale dallo spettacolo è irrimediabilmente reciso.
Perché non risulta ormai chiaro che il mezzo televisivo s’è ingoiate realtà e verità ed è un affronto alla libera intelligenza?
Cara Morena, perché vi sia un affronto alla libera intelligenza questa dovrebbe esistere.
Dieci anni fa sono defluito dal sistema televisivo e, anche se sono curiosamente inseguito dalle ingiunzioni della Rai, che pretende che io paghi il canone per un ‘servizio’ del quale mi sono liberato da gran tempo, vivo felicemente: “sui, rerum et Dei conscius”, per dirla con il grande pensatore ebraico-olandese (‘consapevole di me stesso, delle cose e di Dio’).
Brotto analizza i telegiornali di Mentana, ponendo in risalto la loro bassezza, il chiacchiericcio e il bailamme che contraddistingue il modo in cui rispecchiano la vita politica e sociale di questo paese. D’altronde, in un territorio abitato da uno dei “popoli più volgari e condizionati del mondo” (lapidario epifonema pronunciato da Moretti nel film “Caro diario”) sarebbe sorprendente che la televisione possa mostrare e riflettere qualcosa di diverso. Appartengono, purtroppo, ad un’età ‘preistorica’ esperienze conoscitive, emotive e morali di straordinaria intensità come, da una parte, la visione del “Mulino del Po”, dei “Giacobini”, dei “Miserabili”, di “Pinocchio”, dei “Promessi Sposi”, e, dall’altra, le “Tribune elettorali” con Pintor, Ferrara (padre), Togliatti, Nenni, Moro, Almirante, o anche la “Canzonissima” di Fo e della Rame, che contribuirono, mercé una gestione etica e pedagogica e, a volte, anche positivamente anticonformistica del mezzo televisivo, a formare la sensibilità e l’intelligenza della mia generazione. Certo, lo so bene: allora la tivvù era lo specchio di un’altra società, che, ad esempio, Nanni Loi descriveva con una finezza, un’ironia e un garbo senza pari nella trasmissione “Specchio segreto”. Allora la tivvù rendeva migliori le persone che la guardavano, perché la società stessa, negli anni del ‘boom’ economico, del conflitto redistributivo, della massificazione controllata dall’alto e guidata dal basso (ad opera dei partiti, dei sindacati, delle associazioni, della intellettualità), esprimeva pulsioni e tensioni progressive.
Raccolgo qualche notizia sui palinsesti televisivi, navigando in Internet; quando mi càpita, a casa di mia madre, di seguire una trasmissione televisiva, provo la sensazione che immagino possa provare un cieco, il quale, recuperata fortunosamente la vista, si trovi ad osservare uno spettacolo così orripilante da indurlo a desiderare il ritorno più rapido possibile alla cecità.
Oggi la tivvù rende migliori i peggiori e peggiori i migliori: essa è da fuggire (e da rifuggire) come la lebbra mentale e morale, che una società malata, criminogena e patogena fin nelle sue intime fibre, secerne, produce e riproduce su scala sempre più vasta. Infatti, anche le trasmissioni ‘migliori’ servono colpevolmente ad avallare e a legittimare la massa infetta e contagiosa delle trasmissioni peggiori
Per quanto mi riguarda, non ho il minimo dubbio sul fatto che per un uomo di cultura trascorrere una serata guardando la tivvù è sinonimo di bancarotta intellettuale e morale. Apprezzo quell’uomo politico tedesco (il socialdemocratico Schmidt), che qualche anno fa invitò i suoi concittadini ad astenersi almeno un giorno (se non erro, il venerdì), dal guardare la tivvù, anche se sono convinto che, allo stadio attuale cui è pervenuta la ‘società dello spettacolo’, quella proposta, per quanto giusta, risulta oggi timida e insufficiente.