Si può essere d’accordo sul principio di libertà religiosa, e tuttavia l’accordo è spesso astratto, nel senso che astrae dalle reali condizioni storiche, e anche prescinde da un’analisi condivisa del concetto di libertà religiosa. Per non parlare della differenza nel modo di intendere la religione. Ad esempio: è ammissibile e pensabile come possibile in Occidente (e altrove) la compresenza di religioni che intendono la stessa libertà religiosa in modi abissalmente differenti? Il fatto è che il modello liberale-occidentale funziona solo con le religioni intese secondo il concetto liberale-occidentale, ovvero religioni sostanzialmente relegate nel privato della singola persona. Quando una religione aspira ad essere anche un agente sociale, lì nascono i problemi. Non è dunque facile, da noi, mantenere una via razionale tra isteria identitaria-islamofoba e irenismo illusorio. L’accecamento è sempre in agguato.
Penso che la semplificazione (che è un movimento di sacrificio-espulsione per quanto astratto possa essere il piano su cui si pone) sia un portato inevitabile della logica del capro espiatorio, ovvero della logica che sta alla base di qualsiasi visione e azione politica, per quanto raffinata, democratica ecc. essa possa essere. In questa inevitabile tendenza alla semplificazione, che poi si dispiega in modo vario nelle diverse nazioni, da noi rientra la visione di Berlusconi come il catalizzatore di tutti i mali. Dall’altra sponda il meccanismo è sempre ugualmente operante, e opera fortemente anche in persone come Cicchitto e Brunetta, tanto per fare un esempio, la cui origine nella sinistra socialista dovrebbe costituire una vaccinazione contro il pensiero semplice, e che invece…
l’Ancient Regime non mi dispiace poi molto, ha fatto infinitamente meno morti degli Stati assassini nati dalla Rivoluzione Francese.
Può un popolo di non-coraggiosi generare uno Stato coraggioso?
I “Fronti popolari” si sono realizzati nel passato in condizioni socio-politiche completamente differenti dalle attuali. Oggi il “proletariato industriale” ha cessato di pensarsi come possibile “classe egemone”. Ritenere che il suo posto possa essere preso dal “Lunpenproletariat” dei braccianti agricoli immigrati a mio parere è pura insensatezza. Del resto, in Italia parlano i risultati elettorali, in cui la “sinistra di classe” ottiene, non per caso, pochissimi voti. Mi pare che il proletariato rivoluzionario in un’ottica marxiana dovrebbe essere costituito dai lavoratori dell’industria, certo non dai braccianti agricoli stagionali. Ma anche quel proletariato non esiste più, e qui al nord gli operai votano Lega. Peraltro, sono categorie che non mi appartengono, e che, per usare un’espressione da leninista, sono già finite nella “spazzatura (teorica) della storia”.
L’idea di un Dio onnipotente mi pare incompatibile con le dentature aguzze e gli istinti sanguinari di molte creature solo se quel Dio è visto come una sorta di Grande Uomo, con una moralità da uomo, e da uomo vegetariano-pacifista-occidentale contemporaneo. Insomma, solo in presenza di un Dio psichicamente antropomorfo.
Siamo fatti a sua immagine: transitori, mentre Egli è permanente; inclini al male, mentre Egli è Bene; limitati, mentre Egli è infinito. L’essere immagine si riduce alla libertà, ma questa in Dio ci risulta insondabile e incomprensibile, mentre la nostra ci appare ovunque condizionata. Siamo gettati nel mondo, e soggetti alle leggi della natura e ad una radicale contingenza, donde la morte e la sofferenza: ma se non lo fossimo, saremmo Dei.
Si tratta di un tema cruciale. In fondo, è il tema di Giobbe. Il fatto è che i cristiani hanno da tempo rinunciato alla teodicea, e anche alla riflessione sul rapporto tra Dio e natura, se si prescinde dall’opera di qualche teologo accademico. La teologia del Novecento ha compiuto quella che viene chiamata la “svolta antropologica”. Eric Gans dice giustamente (dal suo punto di vista) che la religione è buona antropologia e cattiva cosmologia. Anche il pensiero girardiano sta tutto dentro la pura antropologia. Una teologia cosmologica è oggi la cosa più ardua.
Intervengo sul quinto ‘sottopensierino’ dell’amico Brotto. Osservo che, dal punto di vista del materialismo storico, le classi sono formazioni oggettive definite da rapporti sociali di produzione, che consentono di estrarre pluslavoro e, quindi, plusvalore ai produttori diretti, e che tale sfruttamento, poiché di questo si tratta, può far nascere negli sfruttati (e sottolineo ‘può’, perché questo fatto può anche ‘non’ accadere) un senso di coesione e una percezione dell’interesse collettivo, che dipendono dalle possibilità di azione comune esistenti in un certo luogo, in un certo tempo e in un certo ambiente. Ciò significa, dunque, che la coscienza di classe delle classi dominate varia considerevolmente, mentre, di norma, le classi dominanti ne sono sempre altamente dotate. Ciò che non varia allo stesso modo, invece, è la resistenza allo sfruttamento, che costituisce anch’essa un altro fattore, parimenti oggettivo, che concorre a definire la classe sociale in quanto tale. Tale resistenza, comunque, non è necessariamente né consapevole né collettiva, poiché la lotta di classe è immanente agli stessi rapporti fra le classi, così come lo sfruttamento e la resistenza contro di esso. D’altra parte, aderire ad una concezione sostanzialmente idealistica della lotta di classe, che rifiuta di considerarla tale in assenza di una coscienza di classe e di un conflitto politico in atto, significa diluirla a tal punto che, in molte situazioni, praticamente essa svanisce. Sennonché, una volta svanita la lotta di classe, diventa possibile negarne del tutto l’esistenza, ad esempio, negli odierni Stati Uniti d’America o nella cosiddetta ‘Padania’ o, ancora, tra padroni e schiavi nell’antichità, poiché in ognuno di questi casi la classe sfruttata non ha, o non aveva, una coscienza di classe né ha intrapreso alcuna azione politica comune, oppure lo ha fatto solo in alcune rare occasioni e in misura limitata. Va detto perciò che questa concezione finisce, in ultima analisi, con lo svuotare di significato non solo il “Manifesto del partito comunista”, ma anche gran parte dell’opera di Marx.
Come si sa, Marx ed Engels non erano proletari, ma diedero l’esempio di persone che, pur essendo esterne alla classe, si assunsero un duplice compito (da questo nasce il “Manifesto” del 1848): quello di costituire un partito e quello di dare, attraverso la costituzione di questo partito, coscienza di classe a una classe che spontaneamente non la possiede, segnando in tal modo una differenza decisiva in un lungo processo storico che aveva visto la borghesia impegnata, attraverso un’attività secolare coronata da notevoli successi, nel formare i propri intellettuali. Certo, gli ‘Arbeiter’ di cui parla Marx non coincidono necessariamente con la classe operaia (ciò avviene in una situazione storica specifica), tanto che oggi vi è una tendenza molto forte a far coincidere la fine del proletariato con la fine della classe operaia. Ma questa è un’identificazione impropria, poiché Marx ed Engels pensano alla classe degli sfruttati, cioè dei proletari, e tutta la loro visione dipende dall’idea che, a mano a mano che si sviluppa il processo storico di proletarizzazione dei ceti medi, tutto l’insieme dei conflitti sociali gravita verso lo scontro tra le due classi fondamentali: borghesia e proletariato.
Può un popolo di non-coraggiosi generare uno Stato coraggioso?
Assolutamente no!
Sono d’accordo con Carla. Infatti, se vi è qualcosa che, appartenendo alla sfera prepolitica o metapolitica, mi accomuna all’amico Brotto, questa è la necessità di rivalutare una virtù che si è venuta progressivamente oscurando nella gerarchia dei valori del nostro paese e, più in generale, dell’Occidente: il coraggio. Lo dico all’indomani del vile assassinio di Angelo Vassallo, sindaco di Pollica, un uomo coraggioso che ha pagato con la vita la sua fermezza nel rifiutare di prestarsi ad azioni collusive verso la criminalità organizzata. Ma lo dico pure all’indomani dell’abominevole dichiarazione («se l’andava cercando») rilasciata dal senatore a vita Giulio Andreotti a distanza di trent’anni dall’uccisione, per opera di un killer della mafia italo-americana, dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, “l’uomo che sfidò Sindona e la mafia”, per citare il titolo del libro dedicato da Corrado Stajano a questo “eroe borghese”. Dal punto di vista delle categorizzazioni letterarie, il “secentismo trascendentale” evocato dal grande critico Luigi Russo nel suo memorabile commento dei “Promessi Sposi”, così come “il sistema di don Abbondio” investigato e ricostruito da Angelandrea Zottoli, fine esegeta del romanzo manzoniano, forniscono un quadro lucido e spietato delle ragioni storico-morali per cui la decadenza italiana, oltre ad essere una fase storica precisa situabile tra il Rinascimento e la Controriforma, sembra configurarsi come una sindrome etico-politica ricorrente, una sorta di invincibile ‘coazione a ripetere’ che domina l’antropologia del nostro paese e vi determina, in modo, per l’appunto, ‘sistematico’ e ‘trascendentale’, il prevalere di un modello di comportamento pavido e accomodante, qual è quello incarnato da don Abbondio nei confronti delle prepotenze e delle soperchierie commesse dai ‘bravi’ e da don Rodrigo, piuttosto che di un modello di comportamento coraggioso e intransigente, qual è quello personificato da fra Cristoforo. Laddove, naturalmente, i soggetti politicamente più pericolosi e moralmente più spregevoli sono quelli che lodano fra Cristoforo e si comportano come don Abbondio…
Dato che c’è accordo, vi chiederei alcuni esempi storici di correlazione “popolo coraggioso” => “stato coraggioso”.
In realtà, la virtù non è dello Stato in sé, come struttura e ordinamento, ma delle persone che operano in quella struttura. Del resto, il coraggio è una virtù “premorale”, come la vigliaccheria lo è per quel che riguarda i vizi, di cui peraltro è base e fondamento.
E’ che trovo singolarmente difficile delimitare il significato della parola coraggio. Potremmo forse definirlo come la capacità di affrontare rischi e disagi (quali incidenti, morte e tortura) per un ideale, e allora ci sembrerà ammirevole in funzione del nostro rapporto con tale ideale. Si tratta quindi di una questione talmente intima e “filosofica” che trovo davvero arduo applicarla ad una moltitudine. Esistono certo dei caratteri culturali che permettono qualche sorta di “proiezione fisiognomica” sopra intere popolazioni eppure, scendendo in ogni singolo caso dovremmo poi operare difficili discriminazioni fra adeguamento mimetico (poco ammirevole) e libera determinazione. Si potrebbe dire che gli italiani “colti” la sanno troppo lunga per aderire “ingenuamente” a degli ideali – caratteristica che però ci ha fatto anche sembrare “più umani” rispetto ai disciplinatissimi esecutori tedeschi. Però nella prima guerra mondiale le nostre masse contadine si sono lasciate in buona sostanza condurre al massacro con la stessa docilità e rassegnazione dei corrispettivi germanici, quindi è ovvio che il DNA non c’entra con la paura di morire o di ferirsi orribilmente, che costituisce indubbiamente una delle dimensioni più appariscenti del coraggio stesso. A tale proposito, mi colpirono molto alcune parole di Lussu.
Lussu, quello della Brigata Sassari? Troppo dispersivo, Fabio, ricordarci quelle parole? Se tu potessi…,grazie.
Potremmo chiederlo a un sioux. Infatti il significato della parola coraggio non è delimitabile, come quello della parola “cor”, cuore, da cui deriva. Ma il suo senso appare evidente qui e ora, nelle situazioni, come quello della viltà, il suo opposto. Ad esempio, se tu vedi un energumeno che sta picchiando a sangue un vecchietto per strada, e fai finta di nulla e vai avanti, sei un vigliacco. Se intervieni sapendo bene di rischiare di farti male, sei coraggioso.
Sì, in certi casi appare evidente. In un caso come quello interverrei, anche perché si metterebbero in moto certi meccanismi dell’onore in un qualche modo autolusinganti e che contemplano, quasi quale “garanzia di qualità”, l’assunzione di rischi. Forme di coraggio meno epiche probabilmente vedrebbero una mia tendenza a svicolare: se vedessi un ubriaco soffocare nel suo vomito e capissi che una respirazione bocca a bocca da parte mia è proprio l’unica soluzione.. sinceramente non so, forse escogiterei qualche complessa scusa, del tipo “so che comunque non ce la farei e allora meglio non provarci neppure”. Questa considerazione mi fa ritornare al primo caso: se l’energumeno fosse armato o apparisse esageratamente forte rispetto ai miei mezzi, allora dovrei rinunciare all’approccio epico (cioè ad una sorta di “fair play” di tipo sportivo) per cercare di colpirlo a tradimento, e questo costituirebbe una sottoparte vigliacca ma però necessaria per mandare a buon fine l’intento coraggioso.
non riesco a leggere il commento di Morena….
non capivo perchè era rimasto in alto, tutto a posto! :-)
(a quando il pensierino 8 ?)
l’esempio, l’esempio è quello degli eroi (Achille), seguiti dalla massa succube.
Il coraggio si misura nel singolo, il resto (lo) segue.
Scusa, Fabio, se l’uomo fosse illimitato, onnipotente ecc. ecc. come Dio, non sarebbe a sua immagine, sarebbe Dio. Leibniz, che si occupava di teodicea, ha enunciato, mi sembra, il principio degli indiscernibili. L’uomo secondo me conserva il desiderio di essere come Dio, che è stato l’origine della caduta non solo nostra ma di tutta la natura, come desiderio di non essere questa belva assassina, di amare l’altro, anche se non sappiamo come fare. L’immagine di Dio, per me, è questo desiderio di uscire dall’egocentrismo. Quando ci riuscissimo saremmo felici, credo. E’ Gesù Cristo il modello, non altri.
Sono d’accordo in parte. La “caduta della natura”, infatti, non può essere articolata se non in relazione all’opera dell’uomo. In sé, la natura è la stessa oggi come al tempo dei tirannosauri: prede e predatori.