Una storia di autismo

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Come padre di una persona con autismo e come lettore di libri e presidente di una associazione dedicata (Autismo Treviso onlus), sono molto attento a tutta la letteratura in materia, scientifica e non. Spesso accade che anche nei libri tecnici ci si imbatta in vere e proprie storie, perché gli esempi che si adducono ad illustrare tesi e pratiche hanno spesso carattere di narrazione. Così, leggendo un testo di autori vari pubblicato da Erickson, Adulti con autismo. Bisogni, interventi e servizi, mi sono imbattuto nella storia di Beth e della morte di suo padre. Eccola.

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Beth è una ragazza di 23 anni, con autismo e con un ritardo mentale grave. Fin dall’infanzia è vissuta in un centro residenziale ed è fortemente dipendente dagli altri, oltre a richiedere una continua supervisione. Ha un linguaggio verbale ecolalico. Beth, talvolta, manifesta livelli d’ansia molto elevati e una certa labilità d’umore, che spesso prelude a comportamenti problematici.
Al momento della morte di suo padre, Beth viveva in centro residenziale per adulti affetti da autismo. Due membri dello staff la informarono della morte di suo padre, avvenuta improvvisamente per un attacco cardiaco. Fu messa al corrente del fatto in un modo molto semplice, ma realistico. Lì per lì non mostrò di avere preso coscienza della perdita: chiese solo una tazza di tè. Nelle settimane successive Beth manifestò un comportamento distruttivo, perdendo qualsiasi interesse per il cibo, piangendo e gridando, e trascorrendo molto tempo nella toilette con un asciugamano sopra la testa. All’inizio, quando le si chiedeva dove fosse suo padre, rispondeva: «A fare la spesa» oppure «A casa».

Fino alla morte di suo padre, Beth era solita fare ritorno a casa ogni due/ tre settimane per il week-end, ma quando il padre morì, la madre di Beth, rimasta sola, era meno sicura di poter affrontare la situazione quando Beth tornava a casa; infatti, fino ad allora, era stato proprio il padre il punto di riferimento più importante per la ragazza. Del resto, era chiaro che le visite a casa erano fondamentali per mantenere un contatto fra la ragazza e sua madre.
La prima visita di Beth dopo la morte del padre durò solo qualche ora e fu contraddistinta dalla presenza di un operatore. La durata di queste visite venne aumentata gradualmente. Dopo quattro mesi, la mamma di Beth si sentì meno vulnerabile e più sicura, e Beth trascorse il primo week-end a casa da sola con la mamma. Tuttavia, fu subito chiaro che il passaggio a queste visite più prolungate era stato troppo rapido e che, forse, non erano del tutto opportune ora che Beth non aveva più accanto suo padre. Fu concordato di ridurre tali visite al soggiorno di una sola notte, una volta al mese. Questa soluzione sembrò produrre effetti migliori, dando comunque il tempo a Beth di stare con sua madre, e permettendo anche alla mamma di vivere il suo dolore senza ulteriori pressioni.

Anche se gli operatori avevano dato la loro disponibilità ad accompagnarla, Beth non partecipò al funerale. Questa fu la decisione presa dalla famiglia di Beth. Tuttavia, si dovette riconoscere che la ragazza doveva essere incoraggiata e aiutata nell’accettare la perdita di suo padre e che doveva potergli dire addio. Con l’aiuto del suo operatore di riferimento, Beth fu condotta al cimitero regolarmente, come se si trattasse di una routine. Non venne in alcun modo forzata in queste visite, ma si capiva chiaramente che non vedeva l’ora di andare da McDonald’s dopo la visita al cimitero. Mentre era al cimitero, l’operatore metteva dei fiori vicino a un albero e, col passare delle settimane, Beth sembrò riconoscere l’albero presso il quale venivano deposti i fiori a ogni visita. Nel contempo, il suo operatore le forniva spiegazioni chiare e concise.
Nel giro di quattro settimane, Beth parve riconoscere la strada per il cimitero. Disse spontaneamente che era «triste. Quando le fu chiesto perché si trovava là, lei rispose: «Per papà». Quando le fu chiesto che cosa le sarebbe piaciuto dire a suo padre disse: «Sii felice». Quando le fu domandato come si sentiva rispetto a suo padre, rispose: »Ti manca moltissimo».
Poco prima di Natale, mentre si avvicinavano al cimitero, fu chiesto a Beth se sapeva dove stesse andando; lei rispose: «Fiori per papà». Quando l’operatore le chiese dove avrebbe messo i fiori, Beth disse: «Vicino all’albero». Beth scese dal pulmino senza alcun suggerimento e camminò verso l’albero per deporre i fiori e poi disse: «Buon Natale papà». Beth era molto calma e rilassata e non chiese di andare da McDonald’s. (pp. 91-93)

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3 pensieri su “Una storia di autismo

  1. è commovente…
    forse esistono sprazzi di lucidità in queste persone ritenute insensibili, senza percezione…e forse bastano questi brevi attimi a scaraventare tutto il dolore contenuto nella realtà, nel loro mondo.
    possibile che non esista una “educazione della personalità” di questi soggetti?

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