Voglio una vita come la mia

Forse prima di poter affermare che si tratta di una generazione baciata dagli dèi, bisognerebbe rammentare l’antica riflessione sulla felicità del re Priamo, di cui prima della caduta di Troia si sarebbe potuto dire che fosse l’uomo più felice della terra, ignorando che avrebbe visto in tarda età la sua meravigliosa città distrutta, e lo scempio dei figli e delle figlie. Occorre dunque attendere la sua fine terrena prima di poter proclamare la felicità di un vivente, che sia singolo o gruppo.
La generazione baciata dagli dèi secondo l’io narrante di Voglio una vita come la mia di Marco Santagata (Guanda 2008) è quella nata nel quinquennio 1945 -1950 (ci rientro per 3 giorni, essendo nato il 28 dicembre 1950). Le ragioni addotte dal Marco narrante, specchio ambiguo e infedele dello scrittore, per asserire la felicità generazionale, sono diverse, ma quella fondamentale sta nel fatto che si tratta della prima generazione a non avere attraversato una guerra. Da questo primo motivo di eccezionalità scaturiscono gli altri, come l’aver conosciuto l’italia ancora preindustriale e poi il boom, l’inurbamento delle masse contadine, la rivoluzione sessuale, quella informatica, e così via. Il ritratto della generazione dei sessantenni o giù di lì oscilla tra il compiaciuto e il cinico, secondo il carattere di questo Marco, che offre un quadro dell’Italia dell’ultimo mezzo secolo molto crudo e insieme divertente. Il testo sta tra il saggio e il diario personale, ed è un romanzo solo in quanto il genere è così polimorfo da ingoiare qualsiasi tipo di scrittura. L’adottare come voce narrante un doppio di sé che non è però un doppio identico è anche un espediente per sparare giudizi che possono essere addossati all’altro. Così sono molto godibili le pagine sulla scuola e l’università (anche questo Marco come l’autore è un italianista).

Parlo del Liceo Classico, ovviamente. Ai miei tempi lo Scientifico era ritenuto un surrogato, uno spezzatino di materie buono per tutti gli usi, tranne che per una vera formazione. Mica circolava allora la balla delle due culture: gli accessi all’università erano differenziati; gli scienziati, quelli veri, avevano pure loro una formazione umanistica e gli ingegneri erano considerati per ciò che erano, ingegneri, appunto: a chi mai sarebbe passato per la testa di definirli intellettuali!
Quando ripenso al mio iter scolastico mi sento un po’ l’Attila della scuola italiana: io uscivo da un ciclo, e subito dopo quel ciclo deperiva. Ho fatto l’esame di terza elementare, e poco dopo lo hanno abolito; l’esame di quinta, e hanno abolito pure quello; ho sostenuto l’esame di ammissione alla Media, e poco dopo hanno istituito la Media unificata, senza prova d’ingresso; quello di quinta ginnasio, ed è sparito. Della mia Maturità, all’antica, con tutte le materie, e pure i riferimenti agli anni passati, hanno fatto una burletta. All’università io, modernista, sono stato obbligato a superare tutti gli esami fondamentali (per intenderci, prova scritta di latino e storia antica con lettura dei testi in greco); appena ne sono venuto via, ecco dispiegarsi una delle conquiste del Sessantotto: la liberalizzazione dei piani di studio. ll che, in soldoni, significava che storia del cinema valeva quanto glottologia, che i testi latini si studiavano in traduzione italiana, che la stessa letteratura italiana poteva essere tranquillamente ignorata e via cantando. Con il passare degli anni la situazione è poi ulteriormente peggiorata. Ma quando, ormai vecchio docente, io e altri volenterosi ci siamo adoperati per porre rimedio a tanto sfascio, e siamo riusciti a varare la cosiddetta riforma della didattica, abbiamo partorito, Dio ci perdoni, un mostro di geometrica inefficienza, un coacervo di statuti, regolamenti, commi, percorsi, lacciuoli molto ma molto più brutto dell’essere informe che ha sostituito. A Riccardo come mia (nostra) unica scusante posso dire che, se gli dèi non vogliono, non c’è niente da fare. Avranno un progetto che ci sfugge: stiamo contenti, umana gente, al quia.
(pp. 108 -109)

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