Un’autobiografia

Un’autobiografia di Anthony Trollope (An autobiography, trad. it. di A. Manserra, Sellerio 2008), si potrebbe anche intitolare Il romanziere come produttore disciplinato. Il fecondo Trollope intese la scrittura come un mestiere da svolgere con metodo e disciplina ferrei, con una programmazione dei tempi e del numero delle parole da scrivere ogni giorno. Qualcosa di davvero affascinante, il contrario dell’artista come genio e sregolatezza. C’è poco in questo libro (ma molto interessante) della vita personale, per lo più legato al lavoro per le Poste Reali, ma molto dell’arte e della scrittura. Con pagine assai gustose, con i rapporti con gli editori e la critica del tempo. Queste righe per i giovani scrittori mi piacciono molto.

Ma falliscono anche molti giovani, perché si affannano a raccontare storie quando non hanno nulla da raccontare. E ciò è la conseguenza della pigrizia piuttosto che di una innata incapacità. La mente non è stata abbastanza all’opera quando si è iniziata la stesura della storia, né la si tiene sufficientemente in esercizio nel procedere col racconto. Non mi sono mai dato molta pena per la costruzione di una trama, e ora non voglio insistere in modo particolare sulla precisione in un settore lavorativo in cui io stesso non sono stato molto preciso. Non sono sicuro che la costruzione di un intreccio perfetto sia mai stata alla mia portata. Ma il romanziere ha altri obiettivi oltre a quello di svelare una trama. Desidera far conoscere ai propri lettori i suoi personaggi così intimamente da far sì che le creazioni della sua mente siano per loro esseri umani che parlano, si muovono, vivono. Questo non lo potrà mai fare a meno che egli stesso non conosca bene quei personaggi fittizi, e non li potrà mai conoscere bene se non riesce a vivere con loro nella piena realtà di una radicata intimità. Devono essere con lui quando va a dormire e quando si sveglia dai sogni. Deve imparare a odiarli e ad amarli. Ci deve conversare, litigare, li deve perdonare, e si deve persino sottomettere a loro. Deve sapere se sono freddi o passionali, se sono sinceri o falsi, e quanto sinceri e quanto falsi. Di ognuno di loro deve essergli chiara la profondità e l’elevatezza d’animo, la meschinità e la superficialità. E così come sappiamo che, nella realtà, gli uomini e le donne cambiano – diventano peggiori o migliori a seconda che la tentazione o la coscienza li guidino –, allo stesso modo dovrebbero cambiare le sue creature, e ogni cambiamento dovrebbe essere da lui rilevato. L’ultimo giorno di ogni mese raccontato, ogni personaggio del suo romanzo dovrebbe essere di un mese più vecchio. Se l’aspirante romanziere ha tali attitudini, tutto ciò gli riuscirà senza troppo sforzo; ma in caso contrario credo che egli potrà scrivere solo dei romanzi legnosi. È così che ho vissuto con i miei personaggi, e da ciò è arrivato il successo, quale che sia, che ho ottenuto. Esiste una galleria di miei personaggi, e di ognuno posso dire di conoscere il tono della voce e il colore dei capelli, ogni fiamma degli occhi e persino i vestiti stessi che indossano. Di ogni uomo sarei in grado di dire se potrebbe aver pronunciato tali o tal’altre parole; di ogni donna, se in un dato momento avrebbe sorriso o si sarebbe accigliata. Quando mi renderò conto che è cessata questa intimità, allora saprò che è venuto il momento di mandare il vecchio cavallo a pascolare. Che riuscirò a rendermene conto quando arriverà il momento, non lo posso proprio dire. Non so davvero se sono molto più saggio del canonico di Gil Blas; ma so che senza questa capacità un romanziere non può raccontare storie con buoni risultati. (pp. 243 – 244)

Un pensiero su “Un’autobiografia

  1. ” si deve parlare quando di deve dire qualcosa che valga di più del silenzio” era il bell’incipit di un libretto che mi pareva si titolasse L’arte del silenzio. sono vere e forti le parole di Trollope che mi pare contrastino con altre pagine del testo più programmatiche riassunte nel commento che le precede. Tra volontà, programma, teoria da un lato e ispirazione, elaborazione sofferta, vita di relazione dall’altro. Nel mezzo, forse, l’originale strada che val la pena di percorrere per sè e per gli altri

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