Due romanzi

L’archivio segreto di Annarosa Mattei (Mondadori 2008 ) e L’amore necessario di Nadia Fusini (Mondadori 2008 ) sono due romanzi molto diversi, ma qualcosa li unisce. Non tanto il calligrafismo, che pure si nota subito – la cura della forma è molto superiore a quella del romanzo medio di oggi -, quanto, in ciò che dicono, la crisi della differenza, ovvero l’aspetto fondamentale, insieme alla cultura vittimaria, del nostro mondo.
Il romanzo della Mattei ha un respiro più ampio, la giornata della protagonista-voce narrante a spasso per Roma la porta a contatto con uomini e donne del passato, monumenti, persone conosciute e sconosciute, molti personaggi appena tratteggiati, e soprattutto gente della borghesia intellettuale della sua cerchia, quasi tutti presi da irrisolti problemi d’amore. Ma l’interlocutore più importante è un gatto, saggio e parlante, che guida la protagonista nel mistero dell’essere (addirittura). Nel romanzo della Mattei vediamo un disperato tentativo di salvare la differenza tra l’uomo e la donna, attribuendo tra l’altro alla donna il ruolo di narratrice di storie e all’uomo quello di ascoltatore, sul modello delle Mille e una notte, che come soluzione è davvero un po’ debole, per quanto suggestiva. Nello stesso tempo, in assoluta contraddizione, vediamo il venir meno di ogni differenza tra l’animale e l’umano (già intravisto nel romanzo di esordio). E anche questo, coi gatti e i cani che parlano, ecc., è un segno dei tempi. Un gatto che parla, o che comunque è qualcosa di più di un gatto,  deve essere (se non siamo in una favoletta o in Esopo) un demone come nel Maestro e Margherita, o un umano sotto falso sembiante. Qui viene presentato come un puro gatto. Qualcosa non va.

Il breve romanzo di Nadia Fusini ha anch’esso nella fabula una dimensione temporale ristretta: in una notte la protagonista-voce narrante (anche qui) scrive una lunga lettera all’amato, in cui ripensa tutta la sua vita amorosa. Ovviamente l’amore omosessuale (maschile e femminile) è posto sullo stesso piano di quello eterosessuale. Anche qui crollo delle differenze. Ciò che li unifica è la passione. Infatti l’amore di cui parla la Fusini, ben più di quello della Mattei, è l’amore-passione, esattamente quello di cui ha scritto, nel suo memorabile e illuminante libro, Denis De Rougemont. Ed essendo l’amore-passione, esso ha una dimensione vittimaria essenziale, è sempre vicino alla morte, invoca necessariamente la morte. Secondo la tradizione che parte dai trovatori e si celebra nel romanticismo.

ci saranno uomini, finché le donne ne custodiranno in sogno l’idea. Ogni donna sogna un uomo ideale, e così facendo nutre l’essenza stessa della mascolinità (p. 98). C’è qui lo stesso pensiero che si trova nella Mattei. Interessante questo tardivo approdo femminile all’idea che l’altro è costruito dal sé: nella letteratura scritta da uomini questo si vede da 2000 anni e più. E però la crisi della differenza fa sì che l’altro non possa essere veramente altro: … a far sognare le donne non è la fantasia di uomini potenti, virili. No, quello che fa davvero sognare le donne è il maschio che ha incorporato in sé la femmina. Non è Cesare, il padrone del mondo, che fa impazzire Cleopatra, è Antonio (pp. 98- 99). Ho seri dubbi che valga l’inverso, e che l’uomo sia fatto sognare dalla donna che ha in sé il maschio, almeno finché il maschio sussisterà come tale, e fatte salve le patologie, e quelle che Freud chiamava perversioni. Ma forse sono troppo rozzo.

13 pensieri su “Due romanzi

  1. Interessante il confronto tra i due libri e i due modi di concepire l’amore: il rapporto uomo-donna, la crisi dell’identità maschile e femminile. Curioso però lo stupore di fronte al gatto Gregorio… A chi scrive e racconta in un certo modo, non propriamente “realistico”, un gatto non può mai apparire come un “puro gatto”, anche se è descritto in modo che sembri un semplice gatto. Se il gatto Gregorio parla del mistero dell’essere e del divenire non deve essere un gatto comune… Del resto è la stessa realtà quotidiana, la più opaca e ordinaria, quella che può essere letta a molte dimensioni, se pensiamo a Kafka. L’effetto straniante può risultare proprio dal corto circuito tra una quieta e riconoscibile apparenza di superficie – si tratta proprio di un gatto? – e la sua essenza più profonda e invisibile. Anche Roma , per esempio, nel mio romanzo non-romanzo, certamente è Roma. Riconoscibile tal quale. Però è anche quella misteriosa città a strati sovrapposti e compresenti che Freud paragonava all’inconscio…

  2. Cara Mattei, secondo me il rapporto tra la Roma onirica e la Roma reale rimane un rapporto ben differente da quello tra un gatto naturalisticamente inteso, ovvero un gatto come animale – che per quanto vivente tra gli umani rimane un animale – e un gatto-demone, quale nella sostanza appare Matteo. Mentre nell’insieme il discorso che il romanzo fa sul rapporto uomo- animale (compreso il desiderio della narratrice di evadere dalla forma umana ) mi sembra dovere più ad una sensibilità animalistica diffusa nell’Occidente di oggi che ad una tradizione letteraria come quella cui appartiene il gatto-demone di Bulgakov. Io infatti leggo appunto il romanzo come un esempio della crisi della differenza (e quella tra uomo e animale è una delle più importanti).

  3. Caro Fabio Brotto, ero fuori e non ho dato seguito alla discussione che invece mi appassiona. Quella che tu chiami “sensibilità animalistica dell’Occidente di oggi” è una corrente di pensiero ancora minoritaria, attaccata da molti fronti, anche dai Gesuiti. Il rapporto dell’uomo con la natura è invece il tema dei temi nella tradizione letteraria occidentale. La sofferenza del mondo naturale, animale e vegetale – in cui siamo inclusi, nonostante il nostro desiderio di evaderne – non è solo umana stando a Lucrezio, a Virgilio, a Leopardi e a tanti altri. Non saremmo altro che “materia pensante”, secondo il conte recanatese: “forse in qual forma, in quale/ stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale.” Le differenze certo che esistono, ma senza gerarchie di specie e di genere. Solo in quanto differenze, o complementarità come nel caso dell’uomo e della donna. Sarebbe interessante per noi umani intuirle o almeno esserne curiosi, senza illuderci di essere il centro di un mondo della cui infinita e multiforme varietà possiamo cogliere solo frammenti.

  4. Cra Mattei, ogni discorso, sia quello che sostiene la gerarchia dei viventi, sia quello che lo nega, è discorso umano. Non è trans-umano o trans-specifico, ma solo e puramente umano. Non conosceremo mai cosa della vita pensino i cani o i conigli. Per il semplice fatto che il mondo della rappresentazione, entro il quale, paradossalmente, tutti gli esseri possono essere posti sullo stesso piano, è il mondo che caratterizza l’umano in quanto non meramente animale. Ed è appunto su questa sostanziale, incolmabile e fondativa differenza che io ragiono. Il rifiuto della gerarchia avviene sulla base di una rappresentazione del mondo, che nella cultura occidentale moderna sta acquistando sempre più forza a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, e non a caso, perché coincide con l’idea che il mondo si divide tra vittime e carnefici. Pensa solo a questo, che nei mass media occidentali non è più rappresentabile l’uccisione di un animale da parte di un umano, mentre lo è quella da parte di un altro animale (come nei documentari di Angela sulla predazione). D’altra parte, se tra l’umano e l’anmale non vi fossero differenze sostanziali, anche gli animali dovrebbero rispondere alla legge morale, cosa che con tutta evidenza non è loro richiesta neppure dagli animalisti più accesi. Io vedo nella negazione del saltus essenziale tra l’animale e l’umano uno spaventoso segno di disumanizzazione possibile. Il crollo delle differenze non ha mai portato la pace, ma il caos. Cosa significa che non ci sono gerarchie di specie? Che il verme e il cane o la scimmia sono uguali tra loro? In che senso? Sarebbe una uguaglianza puramente biologica, nel senso che sono tutti viventi, ma è chiaro che non appartengono allo stesso piano. Tant’è che la morte di un lombrico anche nell’animalista provoca meno emozione di quella dell’orso ucciso dai cacciatori cattivi. Il motivo è semplice: l’uomo si proietta rappresentazionalmente anche sugli animali, mentre il contrario non vale. In realtà, la più coerente abolizione delle differenze tra l’umano e l’animale la sostenne il darwinismo sociale, unendoli sotto l’imperio della legge del più forte e del più adatto.
    “Mors tua vita mea”, il carnivoro uccide e divora l’erbivoro, l’umano guarda e si commuove e vorrebbe che il leone mangiasse erba.

  5. Io, per esempio, sono “erbivora”, caro Brotto… Lo erano anche Pitagora, Plutarco (che scrisse un aureo libretto sul non mangiare carne), Leonardo da Vinci, ecc. “Lo era anche Hitler..” obiettano i carnivori. Ma questo nulla toglie alle ragioni di una scelta che nasce da lontano. Il problema centrale, forse, è quello della comunicazione, non ti sembra? Non esiste solo quella linguistica, nonostante nessuno ne sottovaluti l’importanza e il predominio. Comunichiamo attraverso tutti i sensi, quindi in modo non solo verbale. E gli animale spesso hanno sensi più acuti dei nostri: odorato, udito, vista, tatto, gusto. Stando agli antichi miti filosofici o alla più attuale psicoanalisi il linguaggio verbale ci può anche tradire, ci può dividere dal mondo facendoci sentire estranei al processo naturale e, soprattutto, del tutto soli, procurandoci così non poca sofferenza. Diabolica la nostra intelligenza. Luciferina in un certo senso. A meno che non si riscatti rinunciando al suo predominio e riconoscendo quella intuitiva, immaginativa, emotiva, gli altri linguaggi insomma, le altre sofferenze. Non è difficile riconoscere la sofferenza, come non è difficile riconoscere l’amore. Chiunque abbia avuto un cane o un gatto (ma anche una mucca o un asino o una papera…) lo sa bene. Un delfino o un polpo, un verme o un moscerino, certo che sono differenti. Eppure i delfini amano gli umani, pensa un po’! Giocano… E il polpo è in grado di risolvere problemi complessi. Un gorilla piange la morte del suo piccolo e lo abbraccia. Ti raccomando le scimmie Bonobo: se fai una piccola ricerca ne scoprirai delle belle a proposito delle differenze tra maschile e femminile. Mi piace di più pensare a una famiglia multiforme e complessa di esseri viventi piuttosto che alla disperata solitudine di una sola specie condannata alla consapevolezza di sé. Mi piace anche questa discussione, ma credo di avere invaso troppo il tuo spazio. Se ne hai tempo e voglia, puoi invadere anche tu il mio (www.annarosamattei.it), dove ho riversato una parte della nostra discussione.

  6. Non temere, nessuna invasione.
    Il linguaggio parlato e scritto è una delle forme della rappresentazione, non l’unica. Anche la pittura, la musica, la scrittura, il mimo sono in questa sfera. Ciò che io sostengo, e tu neghi, è che l’umano è un unicum tra le specie viventi. E’ vero che gli animali “giocano”, ma siamo noi a definire “gioco” quelle attività, che col nostro gioco hanno somiglianza superficiale. Perché il nostro gioco è nella sfera della rappresentazione, non se ne distacca mai. Il polpo risolve “problemi” in un senso ben differente da come li risolve un umano, perché la sua soluzione non è rappresentata. Ciò che è rappresentato si sottrae all’immediatezza istintuale, è può essere raccontato. Noi siamo certo in parte animali, ma in parte non lo siamo, siamo fuoriusciti dal loro mondo. Un mondo in cui, non puoi trascurarlo, si uccide. I tuoi amati gatti uccidono, sono fatti per uccidere, basta guardare i loro artigli e denti. E tra loro per “amore” combattono furiose battaglie, riducendosi spesso male: dei cani non parliamo neppure. E se loro uccidono, perché non dovrei uccidere io, non essendo loro superiore, appartenendo al loro stesso mondo? La verità è che coloro che amano il mondo animale nel modo in cui lo ami tu ne hanno una percezione “idillica”. Io invece ne ho una percezione “tragica”.

  7. Non ho affatto una percezione “idillica” del mondo animale, se Lucrezio è uno dei miei tanti maestri. Il mondo in cui siamo inscatolati – noi umani insieme a tutti gli altri esseri viventi – è dominato dal tempo, dalla morte, dalla malattia, dalla sofferenza. A ognuno tocca un compito diverso, a seconda della sua mappa genetica – siamo davvero liberi? – oltre che del genere e della specie di appartenenza. Chi è condannato a uccidere (non solo un felino) non è detto che non sia una vittima del suo destino, che lo vuole carnefice per salvaguardare l’equilibrio tra distruzione e rinascita. Buddha, Epicuro, qualche altro, indicano le vie dell’amore e della compassione (anche qualcosa di più…) per diventare consapevoli e tentare la via della liberazione dalla paura che ci opprime. La capacità di rappresentarci di cui noi soli saremmo dotati farebbe la distinzione perché avviassimo un percorso di rinascita e pacificazione. Quanto ai gatti (amo anche i cani), sono animali singolari, non a caso mitizzati e demonizzati, a seconda dei tempi. Come le donne, con cui venivano bruciati nell’epoca della caccia alle streghe. Tra l’altro, è dimostrato da esperimenti che le specie in competizione non si aggrediscono quando non ne hanno ragione. Lo facciamo solo noi umani. Caro Brotto, comunque, quel che interessa a entrambi- almeno credo – è il dialogo, al di là delle divergenze di opinioni (e di genere: maschile-femminile). Che è proprio quanto stiamo facendo. E mi fa molto piacere.

  8. Credo che le nostre posizioni siano sufficientemente chiare. Grazie a Dio, noi umani possiamo scegliere la nostra dieta, mentre a nessun animale è concesso scegliere se essere carnivoro o vivere d’erba.
    Tu sei vegetariana, io no, e coerentemente invece che limitarmi a delegare ad altri l’uccisione degli animali di cui mi nutro, la pratico spesso attivamente, e senza alcun rimorso di coscienza. Dialogare comunque si può sempre, argomentando le proprie scelte, senza reciproca demonizzazione, proprio come abbiamo fatto noi.

  9. Per tornare al nucleo del nostro dibattito, lasciando ai margini il tema del vegetarianesimo etico, ti vorrei sottoporre l’intervento di Giancarlo Flati che è pubblicato nel mio sito come commento alla nostra discussione. Giancarlo è un artista, oltre che medico chirurgo, appassionato di neuroscienze e di fisica delle particelle. Mii faceva piacere condividere con te le sue considerazioni.

    “Leggendo attentamente sia le tue argomentazioni che quelle di Fabio Brotto ho avuto la sensazione che abbiate ragione tutti e due se consideriamo due diversi livelli di lettura della vita. Con un’ottica riduzionista (tipica del materialimo occidentale) è inevitabile affermare che esista una gerarchia tra le varie specie animali e l’uomo (la gerarchia uomo donna non esiste e non voglio nemeno comentarla). La mente umana e la coscienza sono le più sublimi “emergenze” del mondo biologico. Da questo punto di vista è persino lapalissiano concludere che l’uomo sia superiore a qualsiasi altro animale vivente.
    Ad un livello più profondo del pensiero, con un’ottica olistica, penso che tu abbia ragione nel non dare troppa enfasi alle gerarchie tra specie soprattutto se queste gerarchie portano a comportamenti abnormi e gratuitamente discriminatori. Per spiegarmi meglio debbo confessarti che gran parte della mia energia creativa a cui attinge la mia attività pittorica deriva dalla passione che ho per alcuni concetti derivati dagli studi sulla materia “sottile” e sulla meccanica quantistica. Secondo David Bohm, uno dei padri e dei più geniali interpreti del mondo quantistico esisterebbe un ordine implicato (nascosto alle nostre misere menti) includente tempo passato presente e futuro, dove ogni cosa è racchiusa in ogni cosa, nel contesto di un olomovimento che entra ed esce dalla nostra realtà per estendersi verso una multidimensionalità infinita. Il livello più profondo dell’ordine implicato Bohmiano è definito ” Apice Cosmico” ed è una sorta di intelligenza cosmica che per manifestarsi fuoriesce sotto forma di ordine esplicato, ossia sotto l’apparente cristallizzazione e frammentazione del mondo. Secondo Bohm non esistono oggetti di base, entità o sostanze completamente isolate e separate tra loro. Tutto compenetra tutto in una immensa ragnatela ininterrotta dove la suddivisione del mondo in categorie è puro artificio.”

  10. L’argomentazione di Flati non è affatto persuasiva. Infatti il “livello più profondo del pensiero” di cui parla è un livello del pensiero umano, esattamente come l’ottica “olistica” è una delle possibili ottiche umane. I “comportamenti abnormi” e “gratuitamente discriminatori” cui le gerarchie tra specie porterebbero sono tali solo in relazione a criteri di giudizio umani, e non certo interspecifici o sovraspecifici, semplicemente perché questi non esistono. Il “normale” e l'”abnorme” sono stabiliti dalla cultura umana, che varia nel tempo, a differenza della natura animale. Così per un azteco è abnorme non fare sacrifici umani, per noi mostruosi e abnormi. Quanto alle speculazioni sull'”olomovimento”, dal sapore decisamente mistico, osservo solo che l’affermazione di una realtà superiore “alle nostre misere menti” è un prodotto della nostra misera mente.

  11. Bohm però è uno scienziato, non un mistico. Certo anche la scienza è “umana” … Ma se conoscesse solo se stessa e i suoi fondamenti epistemologici – mutevoli nel tempo – saremmo davvero soli, anzi solissimi: saremmo del tutto estranei rispetto a un mondo che, secondo noi, parlerebbe un’altra lingua radicalmente inconoscibile. Un bambino, che è un vero sapiente, o anche un aborigeno australiano (prima della colonizzazione selvaggia), conosce in modo intuitivo, prelogico, e sa di appartenere allo stesso sistema in cui vivono gli altri esseri e le altre cose di cui intende la vita: sa senza conoscere, impara senza analizzare. La ricerca scientifica non esisterebbe, in tutte le sue diramazioni, se si acquietasse di quel che già sa e non andasse sempre oltre i limiti del già noto attraverso salti e intuizioni. L’arte non esisterebbe senza l’immaginazione che porta alla creazione di linguaggi e forme diversi da quelli quotidiani. Se così non fosse la nostra sarebbe una specie condannata alla distruzione delle altre specie e di se stessa dato che non riconoscerebbe altro che la sua intelligenza e niente altro al di fuori di sé.

  12. Anche tra il bambino e l’animale c’è un salto essenziale: il bambino appena inizia a parlare si esprime mediante segni, che hanno natura trascendente rispetto alla sfera della pura appetizione, che gli animali non abbandonano mai. Che il bambino sia vero sapiente lo dici tu (io lo nego) applicando categorie che non condivido. Infatti ti domanderei che cosa rende vera una sapienza. E proprio questo, cioè il mondo del concetto che si crea sulla base del segno fa la nostra comune natura umana.
    Il mondo dell’aborigeno, come il mondo “primitivo in genere”, è un mondo di segni e simboli: e non è un mondo prelogico se diamo a logos il valore che ha. Il mondo mitico è pur sempre un mondo di parole, e la narrazione ha alla base sempre il principio di non contraddizione. Un mito non significa una realtà e il suo contrario nello stesso tempo. Se mai, esso presenta differenti livelli di realtà, non contradditori, e sempre mediati dal segno. Basta pensare al “tempo del sogno” degli aborigeni: una prova tra le tante che l’umano, a differenza dell’animale, pensa sempre in termini di tempo.
    E proprio l’evoluzione della scienza e dell’arte mostrano che l’uomo è un essere culturale, parzialmente staccato dalla natura. E quello di natura è esso stesso un concetto.

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