Anni di guerra in trincea nel 73° reggimento di fucilieri d’assalto Gibraltar, tutte le terrificanti battaglie del Fronte Occidentale, una infinità di bombardamenti, spesso con i gas asfissianti, innumerevoli attacchi e azioni di pattuglia sotto le posizioni nemiche, molte ferite, la morte evitata per un soffio in molte occasioni: il racconto delle esperienze dell’alfiere e poi tenente Ernst Jünger ci conduce alle soglie dell’indicibile. Ai confini dell’impossibilità di giudicare. Nelle tempeste d’acciaio (In Stahlgewittern, prima ed. 1920, trad. it. dell’ed. 1978 di G. Zampaglione, Guanda, Parma 2000) è un libro in grado di spiazzare qualsiasi lettore. Saltano le categorie politiche e morali, in un certo senso siamo proiettati dentro uno sconvolgente epos fatalistico, in cui la guerra è, puramente e semplicemente è: trascende il singolo, collocandolo in un mondo altro, un mondo in cui la sua unica possibilità di scelta sta nell’accettazione o nel rifiuto del coraggio. E Jünger è propriamente un coraggioso, un eroe, se per eroe in guerra intendiamo un uomo pronto a qualsiasi rischiosa azione, nella consapevolezza che la morte gli è sempre accanto. Nello stesso tempo, il mondo di Jünger appare privo di connotazioni ideologiche. E dell’odio ideologico del nemico. Qui il nemico è un alter ego, contro cui purtroppo il fato (come altro chiamarlo?) obbliga Jünger a combattere, come obbliga gli eroi di Omero. Gli Inglesi sono visti come buoni combattenti, sono rispettati. Anche gli Indiani del 1° reggimento Hariana Lancers, con cui il Gibraltar si scontra duramente, appaiono degni avversari. L’impressione più forte che questo libro determina in un lettore del terzo millennio è data dal fronteggiarsi di due eserciti civili, che trattano bene, come uomini, i prigionieri, e nello stesso tempo fanno uso di armi terribili, annientando in una sola battaglia centinaia di migliaia di giovani vite umane. Un duello per il dominio dell’Europa, combattuto da milioni e da singoli, voluto dal fato e registrato da Jünger in modo olimpico. Come se la questione del senso non si ponesse. Si succedono i caduti, chiamati per nome.
Frattanto il nemico, dopo un leggero ripiegamento, incominciò un nutrito fuoco di armi automatiche durante il quale un fucile Lewis, in posizione a cinquanta metri da noi, ci costringeva ad abbassare continuamente la testa. Da parte nostra, una mitragliatrice leggera raccolse la sfida. Per mezzo minuto le due armi crepitarono l’una contro l’altra investendosi con una reciproca grandine di proiettili. Poi, il nostro mitragliere, il soldato scelto Motullo, si abbatté colpito alla testa. Benché la materia cerebrale gli colasse sul viso fino al mento, era ancora cosciente quando lo portammo al più vicino rifugio. Motullo era un uomo maturo; di quelli che non si sarebbero mai presentati come volontari; ma durante quella sparatoria, mentre era disteso dietro la sua mitragliatrice, lo osservai bene: nonostante le salve gli fioccassero tutt’intorno, non piegava la testa di un millimetro. Quando gli chiesi del suo stato, mi rispose con frasi coerenti. Ebbi l’impressione che quella ferita mortale non gli causasse eccessivo dolore; forse non aveva nemmeno coscienza della sua gravità. (p. 241)
Ecco la sorte del mitragliere Motullo, che cade a Cambrai come sarebbe potuto cadere tremila anni prima sotto le mura di Troia.
Ho finito di leggere ieri “nelle tempeste d’acciaio”. All’inizio l’ho trovato abbastanza simile a “niente di nuovo sul fronte occidentale” che avevo letto una settimana prima, poi la diversa fibra di Jünger (rispetto all’apparentemente più “ordinario” Remarque) ha cominciato a rivelarsi, anche se alla fine non mi è sembrata una differenza tanto “determinante”, a fronte dello scenario soverchiante di quell’interminabile guerra di apparati. Certo Jünger fornisce più “notizie”, in virtù del suo sentirsi progressivamente “forgiato” -piuttosto che annichilito- dall’esperienza, il che lo porta a recitare una parte sempre attivissima e ad integrarsi perfettamente nella “catena di comando”. Ma contemplando queste povere masse gettate in quell’orribile tritacarne, tanto formichina attivissima Jünger quanto la più scazzata Remarque, mostrano essenzialmente lo stesso coraggio, ovvero lo stesso fatalismo di fronte alla morte incombente, e la stessa fortuna casuale nel sopravviverci. Non mi è affatto chiaro come considerare l’adesione di Jünger a quel complesso di fascinazioni, ideologie, mitologie cavalleresche e guerriere che l’apparato statale e la cultura nazionale ha indirizzato sopra di lui con tanto più successo. Quell’adesione gli dona una nota di nobiltà e di stolidità nello stesso tempo, come in quel continuo alternarsi – negli scontri – fra una barbara (o compiaciutamente immaginata come tale) esaltazione nell’abbattimento dei nemici ed il dolore, di nuovo così “umano”, per il concomitante abbattimento dei compagni, o fra la nobiltà del trattenersi dal liquidare l’avversario che si arrende e l’impietoso incitare (considerandosi egli in fin di vita) dei compagni già così provati a morire con le armi in pugno, rifiutando l’occasione di una resa. Naturalmente sono ben lungi dal voler “giudicare” in alcun modo, dalle comodità della mia celletta spazio-temporale storicamente privilegiata, una simile esperienza estrema, registro soltanto un senso di “scissione”, o compartimentazione, che me la rende scomodissima da indossare, pur nell’immaginazione.
Avverto anch’io questa “scomodità”, caro Elio. Molto interessante è confrontare lo Jünger della Prima Guerra con quello della Seconda.
Da quale sua opera si può operare meglio tale confronto?
“Giardini e strade” e “La capanna nella vigna”.
Grazie Fabio!
L’ha ribloggato su Brotture.