Penso che in questi tempi calamitosi, in cui le differenze politiche, culturali, nazionali e religiose vengono accentuate ed esaltate per alimentare conflitti che in realtà derivano dall’uguaglianza essenziale degli umani (innanzitutto dall’uguaglianza degli appetiti che convergono pericolosamente sullo stesso oggetto, e in particolare sul potere), debba essere accolta con interesse ogni riflessione sul tema dell’uguaglianza e della differenza. La scuola dovrebbe sviluppare negli allievi la capacità di porsi in modo serio e maturo di fronte a questi temi, che il buonismo imperante e semplificante tende a banalizzare paurosamente.
Trovo un pensiero significativo nel libro di Franco Crespi Il male e la ricerca del bene (Meltemi, Roma 2006). Collegando il male all’assenza di riconoscimento, Crespi nota che quest’ultimo
…da un lato … è possibile solo a partire dalla convinzione dell’uguaglianza originaria tra me e gli altri fondata sull’appartenenza alla comune situazione esistenziale; dall’altro, esso nasce dalla consapevolezza che ogni singolo individuo, a partire dal suo contesto socio-culturale e dalle condizioni contingenti della sua vita, è, in via di principio, in grado di elaborare un’esperienza dell’esistenza che è soltanto sua e, pertanto, il riconoscimento è veramente tale solo in quanto rispetto della sua differenza, che resta, in ultima analisi, refrattaria ad ogni mio tentativo di definizione. (p. 72)
Ma la fondazione dell’uguaglianza su di una “comune situazione esistenziale”, una volta caduto il riferimento teologico, mi sembra debole. Infatti le situazioni esistenziali vengono a loro volta pensate e definite in modo differente a seconda dei diversi contesti socio-culturali, e dei diversi orizzonti di plausibilità che in essi vigono (per l’azteco, per fare un esempio estremo, è ben plausibile che l’ordinamento del mondo sia destinato a crollare senza i quotidiani sacrifici di sangue umano). Un pensiero dell’uguaglianza che sia in grado di fondarla stabilmente non può che essere un pensiero antropologico, e questo pensiero antropologico non può che essere un pensiero generativo, che anzitutto la sappia collocare alle origini dell’umano, nel punto di separazione dell’umano dall’animale. La straordinaria forza ermeneutica dell’antropologia generativa, sviluppata da Eric Gans, che vede la contemporanea nascita dell’umanità e del linguaggio nell’attimo in cui il gruppo di preumani famelici intorno alla preda interrompe il gesto di appropriazione, che darebbe luogo alla violenza reciproca, e di questo gesto interrotto fa il primo segno, mi sembra qui particolarmente evidente. Il differimento della violenza che dà luogo alla differenza, il segno e il linguaggio, il riconoscimento dell’alterità, la distanza dal centro che rende uguali tutti coloro che occupano la periferia, la reciprocità, lo scambio ecc., insomma tutti gli elementi fondanti l’umano trovano nell’ipotesi originaria, che promuoviamo nella pagina GENERATIVA, la loro unificazione. Al di là delle diverse scuole di pensiero e dei differenti orientamenti politici, comunque, penso sia importante che nella scuola italiana si superi, per quanto concerne la tematica della violenza, un’impostazione prevalentemente moraleggiante e basata sui buoni sentimenti—che come si sa sono volatili—per dare principio ad un discorso più rigoroso, che richiede la fatica del pensare. Purtroppo il messaggio prevalente che i giovani recepiscono oggi non va propriamente in questo senso. E il modo serio e maturo di porsi della scuola richiederebbe insegnanti seri e maturi. Quanti sono?