Si sa che Adolf Eichmann grazie all’opera di Hannah Arendt La banalità del male ha assunto uno status simbolico, a rappresentare tutti quegli oscuri esseri umani che, ben impiantati nel ventre della grande macchina che è lo Stato moderno, operano con devota obbedienza di puri meccanismi, che si sentono realizzati in quanto tali. È molto facile condannare Eichmann. Molto meno facile chiedersi quale sia la misura della nostra somiglianza a lui.
Rifacendosi al grande testo della Arendt, Enrico Donaggio nel suo libro Che male c’è. Indifferenza e atrocità tra Auschwitz e i nostri giorni (l’ancora del mediterraneo, Napoli 2005) descrive il modello di individuo incarnato da Eichmann come
Un individuo che intratteneva un rapporto eminentemente “ideologico” con se stesso e con quanto lo circondava; che si dimostrava incapace di distinguere il vero dal falso, la realtà dalla finzione; e che non possedeva alcuna autentica convinzione. I suoi crimini […] non erano nemmeno rubricabili come infrazioni di una norma, piuttosto come forma di obbedienza automatica a un contesto improntato ad una collettiva quanto infantile fuga da se stessi e dalla responsabilità.
Guardiamoci ora intorno: nella società italiana è forse diffusa e radicata la capacità di distinguere il vero dal falso, la realtà dalla finzione, sono forse diffuse le convinzioni autentiche? O non sono invece dominanti ovunque le forme di obbedienza automatica, le collettive e infantili fughe da se stessi e dalla responsabilità?