“Non posso narrare quel che accadde a Hócin nelle lontane terre russe. Non perché non ricordi, bensì perché non voglio. Non vale la pena raccontare di terribili massacri, della paura dell’uomo, della bestialità degli uni e degli altri, non bisognerebbe ricordare né compiangere né glorificare. La cosa migliore è dimenticare, affinché muoia il ricordo umano di tutto ciò che è brutto e i bambini non intonino canti di vendetta”. Così le prime righe del cupo romanzo La fortezza di Mehmed Meša Selimović (1970, trad. it. di Vesna Stanić, BESA Editrice, Nardò 2004). Che la memoria sia sempre cosa buona, infatti, non è vero, perché anche la vendetta ha bisogno di una memoria, e senza memoria non c’è alcuna vendetta. Non posso restituire bene per bene, ma neppure male per male se non ricordo ciò che ho vissuto, o hanno vissuto i miei padri. Dobbiamo pensare che neppure l’oblio sia sempre cosa buona, però, se non vogliamo assimilarci ai “Lotofagi, che mangiano un cibo di fiori” (Odissea IX, 84 ). Ma la memoria non è neppure libera. In ogni gruppo umano la memoria è regolata, orientata, manipolata. In una società come quella italiana di oggi, della cui ideologia ufficiale fa parte il perdonismo oblioso, pensare la questione della memoria è, tuttavia, quasi impossibile. Come la vendetta, il perdono reale implica sempre il ricordo; la nostra è la società del Lotto e del loto (due facce della stessa trista medaglia).