Discorso sulla caccia 1

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Ho sempre saputo che la caccia è per eccellenza la forma della vita felice. Non per teoresi, ma per esperienza. Ritrovo quest’idea sviluppata nel bellissimo testo di José Ortega y Gasset Discorso sulla caccia (Sobre la caza, trad. it. di A. Vitali, Editoriale Olimpia 2007). In questa che in realtà è una lunga e articolata prefazione ad un libro del suo amico grande cacciatore conte di Yebes, Ortega indaga filosoficamente la natura della caccia. Arrivando alla conclusione che essa non è mutata in migliaia di anni. Ora che viviamo nel momento del suo tramonto, essa può rivelare che cosa è stata: la perfetta forma della vita felice.

A questo punto ci assale improvvisa, con tutti gli allettamenti quasi femminili di cui sanno dotarsi le grandi questioni, questa domanda: che tipo di esistenza felice ha cercato di instaurare l’uomo a seconda delle circostanze? Quali sono state le forme della vita felice? Anche supponendo che siano state molte, innumerevoli, non ce ne sono state alcune chiaramente predominanti? La cosa riveste la massima importanza, perché, ripeto, nelle occupazioni che danno la felicità si rivela la vocazione dell’uomo. Tuttavia ci accorgiamo, con sorpresa e scandalo, che questo argomento non è stato mai indagato. Anche se si stenta a crederlo, manca completamente una storia dell’immagine che gli uomini si son fatta della felicità.
Lasciando da parte le vocazioni eccezionali, ci imbattiamo nel fatto stupefacente che, mentre le occupazioni forzate hanno sofferto i mutamenti più radicali, il programma della vita felice ha subito poche varianti nel corso dell’evoluzione umana. Vediamo che, sempre e dovunque, appena gli uomini potevano concedersi un respiro dalle loro fatiche, si affrettavano, illusi ed eccitati, a mettere in atto un eguale e limitato repertorio di attività piacevoli. La cosa, ripeto, è stranissima; ma, nell’essenziale, mi pare fuori discussione. Per convincersene basta procedere con un po’ di metodo cominciando col circoscrivere il campo di indagine. Quale classe di uomini è stata la meno oppressa dal lavoro e più facilmente ha potuto dedicarsi ad essere felice? Evidentemente la classe aristocratica. Senza dubbio gli aristocratici avevano anch’essi i loro doveri, che spesso erano i doveri più duri: guerra, responsabilità di governo, cura delle proprie ricchezze. Soltanto le aristocrazie degenerate han cessato di lavorare; ozio completo che è durato poco, perché le aristocrazie degenerate non hanno tardato ad essere spazzate via. Ma il lavoro dell’aristocratico, anche il più «faticoso», era tale che lasciava al libero godimento del soggetto grandi porzioni della sua vita. Ed è di questo che si tratta qui: della possibilità per l’uomo di operare quando e nella misura in cui è libero di fare ciò che gli aggrada. Ebbene, quest’uomo massimamente libero, quest’uomo aristocratico ha fatto sempre le stesse cose: correre a cavallo o gareggiare negli esercizi corporali, partecipare alle feste, il centro delle quali è di solito la danza, e conversare. Ma anzitutto, soprattutto e con costanza anche maggiore… cacciare. Di modo che se, invece di ordire utopistiche supposizioni, ci atteniamo ai fatti, scopriamo, lo si voglia o no, con simpatia o stizza, che l’occupazione piacevole più apprezzata dall’uomo normale è stata la caccia. È ciò che di preferenza han fatto re e nobili: cacciare. Ma accade che lo stesso han fatto o desiderato di fare pressoché tutte le classi sociali, fino al punto che grosso modo le occupazioni piacevoli dell’uomo normale si possono restringere a quattro categorie: caccia, danza, sport e conversazione. Si analizzi come si voglia il lungo e ininterrotto fluire della Storia e si vedrà che anche il borghese e il miserabile di solito han fatto della caccia la loro più gradita occupazione.
(pp. 20 -22)

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7 pensieri su “Discorso sulla caccia 1

  1. Dev’essere proprio divertente, ma io preferirei, dopo tutto l’abile gioco dell’avvicinamento, sparare sull’animale una innocua capsula di vernice rossa, così da per poter urlare “preso” e finirla lì, senza il seguito di carcasse da sventrare eccetera. Si tratta certo di delicatezze da viziato, questo è indubbio, tuttavia senza l’elemento della necessità non vedrei motivo di “forzarmi” (e so che al bisogno non sarebbe troppo difficile) al versamento di sangue vero. Ora però dimmi, aldilà della gastronomia (io sono di gusti semplici e robusti e l’amico maiale sarebbe già capace di placare tutto quanto il mio desiderio di carne) quanto conta, “nell’economia” dell’esperienza che descrivi, che l’uccisione sia reale?

  2. La morte è essenziale, perché senza di essa non vi è vera cacciata. L’uccisione dell’animaletto è il termine naturale di questa ed il suo fine ultimo. Il fine della caccia stessa, non del cacciatore. Costui la morte la infligge, perché è il segno che infonde realtà a tutto il processo venatorio, nient’altro. Insomma, non si va a caccia per uccidere; al contrario, si uccide per aver cacciato. Se allo sportivo la morte dell’animale fosse offerta in dono, egli vi rinunzierebbe. (…) Per questo era necessario opporsi alla caccia fotografica, che non rappresenta un progresso, ma una deviazione e una leziosaggine di pessimo stile morale. (..) Ogni genuino perfezionamento deve lasciare intatto l’in sé della caccia, la sua struttura essenziale. E questa consiste nell’affrontarsi di due specie disuguali. La cura dell’uomo deve essere rivolta non ad ad assimilare la bestia a se stesso, perché questa è una stupida utopia, una farsa balorda, ma ad evitare, una volta di più, l’eccesso della sua superiorità. La caccia è libero gioco della specie inferiore davanti alla superiore. (…) A rigore, il senso della caccia sportiva non è di elevare la bestia fino all’uomo, ma qualcosa di più spirituale; una cosciente e quasi religiosa umiliazione dell’uomo, che frena la propria strapotenza e s’abbassa fino all’animale. (…) Ogni animale è in relazione di superiorità o inferiorità con un altro. L’uguaglianza stretta è oltremodo improbabile e anomala. La vita è una terribile lotta, una gara grandiosa e atroce. La caccia sportiva immerge l’uomo deliberatamente in questo formidabile mistero, e perciò ha qualcosa del rito e dell’emozione religiosa, in cui si celebra il culto di quello che c’è di divino, di trascendente nelle leggi della Natura (pp. 80-82)

  3. Mi prefiguravo questa essenzialità. E dunque dovremmo ammettere che anche lo sport è una “leziosaggine di pessimo stile morale” in quanto, rispetto alla guerra (intesa a livello di banda e di tribù, o anche di vendetta personale) rappresenta un’anacquatura analoga a quella della caccia fotografica rispetto alla caccia vera e propria. D’altronde è evidente con quanta passione quasi tutte queste culture alla guerra si dedicassero (sebbene magari sospinte da fattori che non comprendevano): in fondo era una caccia, per quanto maggiormente sacralizzata, all’animale più furbo e pericoloso che si potesse incontrare. L’argomento è difficile, l’aggancio all’ “ancestrale” è evidente ma anche il pericolo di derive in autosuggestioni filologicamente determinate. Per il momento preferisco pensare che sia possibile lasciare certe esperienze alla Necessità, senza perdersi troppo di essenziale.

  4. Mi pare interessante notare come nella mitologia greca il dio della guerra sia altro dalla dea della caccia. Ares e Artemide sono diversi. Invece, Ares è legato ad Afrodite, la dea dell’amore. Le culture guerriere per eccellenza non sono state culture di cacciatori, ma di pastori (i Mongoli, gli Arabi) e di agricoltori (i Romani, gli Aztechi). E anche questo è significativo. Anche il sacrificio umano è legato all’agricoltura, non alla caccia.

    Occorre anche distinguere la caccia dal combattimento (con un uomo o un animale, come nei ludi gladiatorii). Non sono la stessa cosa, anche se certe cacce, come quella al cinghiale, possono implicare qualcosa di simile al combattimento, che coinvolge i soci dell’uomo nella caccia, ovvero i cani.
    In ogni caso, quel che oggi pone il problema nella caccia (e anche nella pesca sportiva, a dire il vero) è che vi sia uccisione. Questo deriva dall’identificazione con la vittima, dovuta alla cultura vittimaria occidentale post 1945, e all’annebbiamento della differenza tra l’umano e l’animale. Che fa emergere però anche una contraddizione: se infatti non c’è differenza tra l’umano e l’animale, visto che all’animale la morte di altri animali non pone alcun problema, perché mi devo preoccupare dell’uccisione di altri esseri viventi (in quanto tale, a prescindere dalla salvaguardia delle specie, ecc.) come questione morale? La preoccupazione umana per le altre specie colloca l’uomo su di un piano superiore ad esse, ed è qui esattamente quello “specismo” di cui gli animalisti accusano quelli come me.

  5. Certo si può provare a distinguere ma non sarei sicuro che si possa davvero dipanare. Sento che quel che c’è di bello nella scena di caccia di Ortega lo si ritroverebbe ancora più bello in certe antiche scene di battaglia: gli alani (non cani, questa volta) che lanciano il loro grido di guerra, altre tribù che rispondono con i loro, e poi il cozzo, il sangue, gli scontri dei campioni, e infine i racconti davanti al fuoco, che ripetuti e mandati a memoria diventeranno epica. Tutto in scala maggiore: il pericolo, il coraggio, la “partecipazione mistica”. Ma allo stesso modo il lato laido: quelle vulnerabili carni, quelle puzzolenti viscere, quelle misere ossa che i colpi inferti espongono, smascherando l’inganno ordito dai lineamenti esterni, rendendo improvvisamenti goffi movimenti poco prima così eleganti, trasformando in un lampo fierezza ebbra in patetico lamento, si prolunga, attenuato, in quella stessa scena di caccia: è allora che si scorgono povere e transitorie creature, costrette a danzare uno spartito insensato che le travalica completamente, dappertutto.

  6. L’insensato e il sensato possono essere detti, e separati, solo a partire da un concetto di senso. Il senso è allora dell’umano e solo dell’umano, come il non senso.
    La bellezza è transitoria, certo, e fuggevole, e può essere anche istantanea. Rimane, nondimeno, bellezza. Ma è pensata nell’ordine del tempo da una mente che può comprenderlo in sé e avvertirne la tragedia, o superarla nell’idea del non-tempo.

  7. Là da me ho aggiunto a questi commenti una postilla – non troppo riuscita a dir la verità, ma che mi sarà comunque utile per riprese future dell’argomento. Mi sembrava un po’ troppo lunga per un commento ospitato :-)
    Ciao

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