Uomini famosi che sono stati a Sunne

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Ogni destino è un destino, ogni uomo è un uomo, e tutti i destini degli uomini hanno una loro grandezza, perché anche il più meschino degli uomini è, a suo modo, grande. Ma questa grandezza è passeggera, e sospesa sul nulla. La narrativa di Göran Tunström è delicatamente postmoderna, il suo nichilismo è quasi danzato, lievemente. La prova che ne dà nel suo romanzo Uomini famosi che sono stati a Sunne (trad. it. M.C. Lombardi, Iperborea, Milano 2003) tocca il sublime, nella versione nordico-crepuscolare. Uno dei personaggi, ora ridotto a clochard sporco e ubriaco, è stato un astronauta, è stato sulla Luna. Ora è a Sunne. Ha con sé una parte delle ceneri di sua madre. L’altra parte l’ha sepolta nel suolo della Luna.

La madre di Ed fu la prima donna sulla Luna.
Mentre le telecamere dell’Eagle ruotavano da un’al­tra parte, Ed aprì il guanto, si chinò e seppellì nella pol­vere lunare la scatolina che un tempo aveva contenuto la sua vera nuziale. Ora le ceneri di sua madre riposa­vano là e il suo cuore batteva: se mai fosse arrivato sulla terra il giorno della resurrezione, lei sarebbe stata la sola a non potervi partecipare, almeno non con tutto il suo essere. Forse non con la sua coscienza, se quel giorno un qualche dio aveva intenzione di radu­nare tutti gli esseri cremati, uccisi, decapitati che la terra aveva usato. No, Ed non era religioso. Che lui nell’Eagle avesse fatto la comunione era una conces­sione sia alla NASA sia a colei di cui si apprestava a esaudire il desiderio a metà. A metà perché aveva di­viso le sue ceneri in due parti, una per la Luna e l’altra per la Terra, e la seconda era quella che aveva nel por­tafoglio. Sua madre avrebbe potuto presto riposare anche a Sunne.
Ma lassù aveva premuto delicatamente il piede sulla scatolina perché andasse più in profondità: la ghiaia lunare turbinò scintillando, cadde senza far rumore e dentro di lui si fece uno strano silenzio. Un silenzio diverso. Un’assenza di tempo che si diffondeva per tutto il suo corpo. Lei era sepolta fuori dal tempo, lì non c’erano stagioni, né settembre né luglio né rintoc­chi di campane né occhi. Solo la parola Nulla aveva una presenza. Nulla aveva presa. Nulla era ormai una parte di se stesso, sosteneva. (p. 162)

Ogni tanto, Tunström se ne esce con dei veri e propri aforismi. Ne riporto uno che mi è piaciuto molto.

Perché i preti sospirano più degli altri? Sospirano perché troppo grande è l’abisso tra quello che predicano e quello che è il mondo. A meno che non sia il contrario: che si sono fatti preti perché avevano una certa facilità a sospirare sullo stato del mondo. (pp. 183-184)

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