Il libro del buio

Colui che dice “io” nel romanzo di Tahar Ben Jelloun Il libro del buio (Cette aveuglante absence de lumière, 2001, trad. italiana Y. Melaouah, Einaudi, Torino 2001) è una finzione dell’autore. Nessuno scrittore, credo, può riuscire ad identificarsi in modo convincente in un’esperienza di totale e prolungata disumanità (la detenzione dei prigionieri politici a Tazmamart in Marocco avviene in condizioni inenarrabili, più atroci di quelle di qualsiasi altro racconto, perfino della Kolyma di Šalamov – diciotto anni in una stretta cella sotterranea nel deserto al buio totale, con le guardie che attendono con ansia la morte dei prigionieri per poter tornare alla vita normale: si può immaginare qualcosa di peggio?) se non l’ha vissuta in prima persona, come Levi, Šalamov, Solženicyn, Herling, ecc. Il libro del buio rappresenta il punto massimo di avvicinamento letterario possibile alla negazione dell’umanità da parte degli umani, ma non investiga i moventi dei negatori, bensì la resistenza dell’anima nella vittima. Il prigioniero sopravvive come umano via negationis, rinunciando a tutto. Anzitutto alla luce che gli è tolta, poi all’odio per i carnefici – veleno che uccide – , infine persino al corpo. Ma non vi è rinuncia alla comunicazione, perché da una cella all’altra, nel buio, i prigionieri si parlano, e riescono in qualche modo a organizzare il tempo, lavorando con la memoria. I carnefici poi, nella loro bestialità, mantengono (a parte il kmandar) qualche elemento di umanità – sono in fondo islamici, non S.S. – come si vede nell’episodio a pag. 53.

Un giorno Fantass scomparve. Per due mesi non udimmo la sua voce roca, né il sibilo dei suoi sputi. Quando tornò, faticammo a riconoscerlo. Aprì ogni cella e chiese scusa. Riuscii a vedergli la faccia grazie alla lampada elettrica che teneva in mano e che dirigeva verso il proprio viso. Piangeva e diceva cose strane:
– Ti chiedo scusa, sono stato malvagio, terribilmente cattivo. Vi sputavo nel mangiare, ci buttavo dentro la sabbia. Vi odiavo perché mi avevano insegnato a odiare. Vi auguravo una morte lenta e dolorosa. Merito l’inferno per tutto il male che vi ho fatto. Dio mi ha punito. Mi ha portato via i miei due figli maggiori, morti sul colpo in un’auto nuova di zecca. Dio ha fatto giustizia. Non ho più niente da fare qui. Morirò anch’io. Per me è finita. Aiutatemi ad andarmene perdonandomi.
Fantass morì di lì a qualche mese, dopo uno sciopero della fame.
Anche un’altra guardia, Hmidouche, era molto cattiva. Zoppicava in seguito a una caduta. Quando vide cos’era successo al suo amico Fantass, ebbe paura e si mise anche lui a chiederci scusa! Le altre guardie non facevano commenti. Riducevano al minimo i rapporti con noi. Avevano paura di M’Fadel, il loro capo.

Questa è, a mio giudizio, la prova narrativa più convincente di Ben Jelloun, di cui apprezzo le grandi capacità mimetico-letterarie (Creatura di sabbia, col suo seguito Notte fatale, è un grande libro, e L’albergo dei poveri è un saggio di bravura ai limiti del virtuosismo – un virtuosismo che rappresenta il pericolo fondamentale per scrittori dotati come Ben Jelloun).

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