Aprile spezzato di Ismail Kadaré (trad. italiana di F. Celotto, Guanda, Parma 1993) è un romanzo molto interessante dal punto di vista antropologico. Come romanzo in sé lo trovo solo parzialmente riuscito: bello nella parte strettamente “albanese”, con la natura selvaggia e soprattutto con le istituzioni che regolano la vita sull’altopiano facendone un unicum umano; abbastanza scontato e debole nella parte “sentimentale” con la coppia intellettuale raffinato – moglie bellissima in viaggio tra i “selvaggi”, tra curiosità intellettuale e snobismo, fino al naufragio di un amore evidentemente fragile. La descrizione di un popolo che vive sotto la strettissima legge del Kanun (il canone, l’insieme delle norme consuetudinarie ferree nel controllo della violenza mediante la regolazione delle faide) è mirabile. Il paesaggio stesso, segnato dalle kulla, le case-torri in cui le famiglie chiudono i loro membri che hanno commesso l’omicidio cui erano assolutamente obbligati dalla bessa (o besa), ovvero la parola d’onore che è imperativo morale, un paesaggio ferrigno e minaccioso, rende bene il senso di una società che contiene in sé una carica di violenza straordinariamente intensa, che deve in qualche modo essere scaricata per evitare un’esplosione generale. Il modo in cui questo si realizza è la catena delle vendette sapientemente regolata, in cui l’uccisore è a sua volta ucciso, ma secondo un rituale minuziosissimo che impedisce il contagio mimetico generalizzato. Ennesima variante sul tema antropologico universale del capro espiatorio, questo romanzo è un mezzo capolavoro. L’amputazione della parte sentimentale ne avrebbe fatto un capolavoro assoluto.
Sulla nascita della bessa come fondamento della società albanese Kadaré ha scritto un romanzo-mito: Chi ha riportato Doruntina (1979).