Un sillabario piceno è il sottotitolo del piacevole Viaggi da Fermo di Angelo Ferracuti (Laterza 2009). Sono memorie, riflessioni e descrizioni brevi, incontri con una varia umanità sul suolo piceno, dal famoso artista alla prostituta(o) di strada. È insieme il ritratto di una regione e una narrazione di una vita, di un uomo Ferracuti che è stato militante di una sinistra anarcoide-libertaria e ora si trova in difficoltà col mondo presente, dominato da un capitalismo amorale e famelico, e ha una forte nostalgia di tempi antropologicamente differenti (incarnati dal volto del contadino comunista buono). Il fondo del libro è un forte senso di nostalgia per ciò che è tramontato. E mi viene in mente ciò che scrive Marco Santagata in Voglio una vita come la mia, parlando dei cinquanta-sessantenni italiani come l’ultima generazione che ha avuto un vero contatto con la natura.
Riporto una pagina che trovo molto bella, e conferma quanto ho scritto.
Adesso abito in un appartamento al terzo piano di questa casa. Intorno l’assedio di palazzine tutte uguali, che sembrano disegnate con lo stampo. Quello che forse non è mai cambiato davvero è il paesaggio che si scorge in lontananza da queste finestre. Una campagna dolce che sempre mi rassicura e accoglie con i suoi alberelli sparsi, e sul fondo sempre loro, le cime dei Sibillini che svettano come Giganti della Montagna nelle giornate limpide, quando si vede veramente tutto. Le mie sfingi sono sempre stati loro. La mia patria è questa. Qualcosa di arcaico che riesce a conservarsi come luogo antico delle radici. Quand’ero bambino mi perdevo laggiù, seguendo randagio i solchi dove una volta c’erano distese le rotaie della vecchia ferrovia e dove correva il trenino Fermo-Amandola. Camminavo e camminavo lungo quel percorso, magari stringendo un coniglio malato, o una zampa di gallina avuta in regalo da mia zia, e ogni volta andavo sempre più lontano, sempre più lontano, perdendomi. A volte succedeva che mi scampagnassi troppo, e al tramonto mi sembrava di sentire l’eco della voce di mia madre che si sgolava chiamandomi. Il buio avvolgeva in un attimo la campagna. Non la sentivo veramente quella voce, ma sapevo che c’era. L’eco risuonava nelle mie orecchie calde. Allora capivo che s’era fatto tardi, e cominciavo a correre verso casa con tutte le energie possibili. Il cuore batteva forte come il pestare delle scarpe, e quelle boscaglie diventavano subito sinistre. Correvo scappando da qualcosa che non conoscevo ma che mi figuravo incredibilmente mostruoso. Animali feroci, uomini maligni come quelli di certi libri che avevo letto, come il pirata Long John Silver dell’ Isola del tesoro. Vedevo già i volti, le mani prensili e ossute che volevano afferrarmi. Il vento che ululava diventava un personaggio vero nelle mie fantasie mentre scappavo. Quelli erano tempi di paura e di natura. Lontani, bellissimi.. (p. 55)