Poiché Fornari è filosofo, e l’operazione condotta in Filosofia di passione è apertamente filosofica, come il titolo proclama, gli dobbiamo chiedere una coerenza totale ed un rigore appunto filosofico nell’uso dei termini e dei concetti. Allora, quando si parla di una conoscenza assoluta, cioè soluta ab, ovvero sciolta da, dobbiamo chiedere da cosa, da quali limiti questa conoscenza sia sciolta. Uguale rigore è da invocare quando si parla di conoscenza reale. Ora, per Fornari la conoscenza della vittima è una conoscenza non ipotetica né discutibile, una conoscenza dunque non relativa, ma reale ed assoluta. Tuttavia, questa conoscenza mi sembra non trascendere, anche nel discorso fornariano, i limiti del soggetto conoscente. L’assolutezza che io sento di attingere, ad esempio nella fede, è un’esperienza soggettiva, esattamente come quella del mistico, il cui superamento del soggetto e dell’io riguarda pur sempre lui, e non me. In effetti, dobbiamo anche aggiungere, l’esperienza storica mostra che l’attribuzione dello status di vittima è sempre problematico, ed oggetto di negoziazione e di conflitto. I Palestinesi come popolo sono vittime? Saddam Hussein è stato vittima? Eichmann è stato vittima? L’attribuzione della condizione vittimaria mi sembra un atto condizionato dall’esperienza storica e dalla sua lettura, che dipende a sua volta da una serie di precondizioni: si tratta dunque di una operazione sempre relativa a, e mai assoluta.
Al di là degli aspetti più propriamente scientifici delle idee di Girard, che come abbiamo visto presentano molti lati imperfetti e discutibili, e per mezzo di queste medesime imperfezioni, si affaccia una verità che non è in alcuna maniera opinabile, e cioè che esistono vittime. Mentre il relativismo culturale non può e non vuole spezzare il circolo chiuso del linguaggio e dell’interpretazione, la consapevolezza che esiste una vittima trascende di colpo la circolarità delle ipotesi e delle interpretazioni equivalenti fra loro. Se io mi accorgo che all’interno di un gruppo la violenza di tutti si scarica su un capro espiatorio, in forma fisica o ipocritamente trasformata, io sono investito da una conoscenza che non è discutibile, non è in alcun modo ipotetica. Non si tratta più di una conoscenza teorica, ma di una conoscenza reale e assoluta, che viene a coincidere con la mia esistenza come essere morale, cioè dotato di libertà. Grazie alla demistificazione evangelica possiamo passare dalla rappresentazione ingannevole dei persecutori, riflessa nei miti e nei testi di persecuzione, a una rappresentazione completamente degna di fede, una rappresentazione che coincide con la rivelazione, convergenza che ha nella resurrezione la sua pietra angolare. Lo skandalon della vittima diventa skandalon conoscitivo. (p.119)
Che la verità della vittima appartenga alla sfera della fede, e non a quella della filosofia, confermando quanto detto circa gli incerti confini tra ambito teologico e ambito filosofico nel discorso fornariano, è evidente in queste righe:
La verità della vittima è un assoluto che non rimane irrelato col resto dell’esperienza dal momento che la fonda e la rende possibile, ivi inclusi i medesimi strumenti conoscitivi che noi adoperiamo nel prenderne atto. (p. 126)
La vittima come fondamento è (…) perfettamente reale e rappresentabile. La vittima è vera non in quanto principio metafisico, ma in quanto persona reale che io vedo e che devo difendere. In questa concretezza che è universale proprio perché totalmente incarnata si può verificare la superiorità della legge dell’amore cristiano rispetto alle assolutizzazioni della filosofia e della metafisica. Proprio perché viva e concreta questa legge non ammette eccezioni di sorta. (p. 141)
Se la vittima non è un principio metafisico (ma se non lo è come può essere il fondamento dell’esperienza umana?), ma una persona reale, che io vedo come vittima e che quindi, essendo vittima, cioè perseguitata ingiustamente, io devo difendere, da dove mi viene quell’obbligo etico, se non da un messaggio religioso mediato storicamente, e quindi condizionato dalla storia stessa? Poiché se fossi un azteco non muoverei un dito in favore dei prigionieri scannati sui gradini dei templi.
Fornari è polemico contro i girardiani antisacrificali, chiamiamoli così, ovvero contro coloro che vedono nella morte di Gesù un’uccisione ma non un sacrificio in senso proprio. Per Fornari, anche il dono ha, come tutto, origine sacrificale. La tendenza di molti seguaci di Girard secondo lui è
“(…) estremamente pericolosa, perché (…) accentuando i difetti presenti nelle idee di Girard, le deforma portandole a dire ciò che non dicono, e allontanandole da quel realismo che rimane il sigillo di garanzia di questo pensatore.” (p. 123)
Per contrastare questa tendenza che giudica erronea e fuorviante, e per recuperare pienamente la sacrificalità della Passione, Fornari ritorna necessariamente all’Origine, dove pone un’esperienza estatico-sacrificale che, per quanto impersonale e collettiva, implica sempre la percezione di un altro-divino, la cui divinità rimane a nostro giudizio del tutto infondata e infondabile. Lo si vede perfettamente in questo passo, che dalla natura dell’offerta di sé del Cristo, cioè dell’Eucarestia, deduce l’elemento del cannibalismo, che nell’espulsione-uccisione girardiana non è un principio generalizzato.
Mi sono già occupato più volte di questa retorica alquanto sentimentale, che prescinde gravemente da un’autentica considerazione storica dell’origine dei doni umani dal sacrificio: il dono non è infatti altro che l’imitazione da parte dell’uomo di quella traslazione di senso e di vita che i fedeli sentono di ricevere dal loro dio, è l’interpretazione ulteriore del transfert sacrificale una volta che esso consente culturalmente l’elaborazione di un’idea di proprietà, di un bene che si è ricevuto o si spera di ricevere, e di cui privarsi per farne dono alla divinità e ringraziarla. Il sacrificio più arcaico non ha quindi alcun rapporto diretto col dono, dato che si basa su uno stato di estasi collettiva nel quale originariamente non c’era alcunché di personale, né da parte dei fedeli né da parte della forza divina da cui il gruppo si avvertiva dominato, e nel quale pertanto, non essendovi attori personali nel senso nostro, non vi potevano essere né autori né beneficiari di ipotetici doni. Prima del possesso che si riceve o si dà esiste la possessione di gruppo, che non è un processo di scambio, o una sorta di contratto sociale, ma un’esperienza radicale che fonda l’essere stesso di tutti a partire dall’essere fisico della vittima, dal suo corpo e dal suo sangue di cui tutti si cibano. Se dunque si vuole interpretare la morte di Cristo come dono “antisacrificale”, cioè contrario al sacrificio ed esente dal sacrificio, si viene ad escludere che tale morte abbia efficacia redentrice nei confronti dell’autentico sacrificio arcaico, che non sa nulla di doni e di scambi perché istituisce lo spazio simbolico stesso su cui, molto più avanti, gli uomini ragioneranno in termini simili. (p. 123 -124)
Anche su questo punto la primatologia può esserci d’aiuto. Infatti l’offerta di cibo ad un membro del gruppo è stata osservata tra gli scimpanzé: i maschi vanno a caccia di altre scimmie, e poi offrono pezzi di carne alle compagne, avendone in cambio prestazioni sessuali. Dico questo non per banalizzare il discorso o per ricondurlo nei binari di una scienza sperimentale basata su osservazioni controllabili, ma perché ritengo che un discorso sulle origini dell’umano vada svolto senza trascurare la massa dei dati offerti da primatologia e paleoantropologia, cercando di non trascurare le poche evidenze, ma anche la massa delle non-evidenze.
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(7 – continua)