Il sorriso eterno di Pär Lagerkvist (1920, trad. it. G. Prampolini, Iperborea, Milano 1990) è un romanzo anomalo, in apparenza. Lagerkvist è uno di quegli atei usciti dal luteranesimo nordico che vivono drammaticamente l’impossibilità di un ritorno alla fede dei padri, e che anelano alla trascendenza, ad un luogo supremo di conciliazione. Qui la storia si svolge tra i morti. Come tutti i moderni, Lagerkvist non riesce a rappresentare in modo poeticamente convincente il mondo dei defunti, l’altro mondo. E qui abbiamo un aldilà spoglio, in cui i morti sono sospesi in una condizione larvale, o meglio appaiono fissati nel ricordo della vita che hanno vissuto. Siedono nel buio, metafora del nulla, però parlano, sebbene paiano non ascoltarsi l’un l’altro per davvero. Ad un certo punto decidono di alzarsi e partire alla ricerca di Dio (che il traduttore, chissà perché scrive con l’iniziale minuscola). Camminano per un tempo lunghissimo, in…
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