Il cielo è dei violenti

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Leggo Il cielo è dei violenti di Flannery O’Connor (The violent bear it away, 1955) nella riedizione Einaudi del 2008 e traduzione di I. Omboni. Raramente il titolo di un romanzo mantiene le promesse come fa questo: un libro formidabile, per spiriti forti. Inciso: sfido chiunque a farlo leggere a qualcuno che non sappia nulla dell’autrice, e a chiedergli se ritiene che sia stato scritto da un uomo o da una donna. Potrebbe essere stato scritto da Cormac McCarthy. Ne ho trovato una bella e vibrante recensione di Laura Ingallinella su CriticaLetteraria. Vi si legge, tra l’altro :

“In un intelligente saggio del 2007, l’anglicista Gary M. Ciuba propone di analizzare The Violent Bear It Away come uno schema di opposizioni tra i personaggi, ognuna delle quali è rappresentata da una biblica «stumbling rock», una pietra dello scandalo, con un processo «from scandal to skandalon» [15]. L’approccio è intelligente, ma è bene invertire il segno della reazione: lo scandalo nasce dalla pietra, non viceversa [16]. Nelle Scritture, il termine originario per “scandalo” era mishkol (pietra: unità di misura per una terra in cui la roccia domina il paesaggio). Isaia – non a caso, un profeta come Mason – conia per primo la metafora del sasso in cui si inciampa: che nella traduzione greca diventerà skandalon (legata come il latino scandalum alla radice skand, compiere un salto). Dal letterale al metaforico: l’inciampo si trasforma in prova, la «pietra dello scandalo» assume il doppio valore di ente fisico o spirituale che costringe a innalzarsi o, al contrario, a cadere.
Bishop è la pietra dello scandalo perché incarna in modo quasi offensivo il paradosso della grazia. 
Porta un nome che rimanda alla gerarchia ecclesiastica, ma è un «dim-witted». Nei suoi occhi brillano come dei pesci, una luce lacustre che rispecchia il suo orribile ma necessario destino. La sua morte è la chiave per la risoluzione dei conflitti. Anche Rayber, dopo la morte del figlio, troverà un attonito equilibrio, svuotato di passioni.”

Bishop è il nome di un bambino disabile mentale, che uno dei tre protagonisti del romanzo, il quattordicenne Tarwater, ha la missione di battezzare, missione affidatagli dal prozio, un profeta cristiano-fondamentalista. Infine il bambino sarà da lui battezzato per affogamento, ucciso nel momento stesso in cui l’anima dovrebbe essere salvata. Ai miei occhi si tratta indubbiamente di una violenza religiosa che si abbatte su di una vittima innocente, e non è un caso che dopo la sua morte scenda anche sul padre, il combattuto razionalista Rayber, una certa pace. Il deficit mentale è un segno vittimario, la pace è l’effetto del sacrificio-omicidio. Che nella narrazione si tratti indubbiamente di una morte necessaria e predestinata evoca molto di più una logica vittimaria pagana che quell’offerta libera di sé per gli altri che è l’essenza del cristianesimo. Che l’empito religioso della O’Connor sia definibile come cattolico mi pare dubbio, e anzi io penso che qui lo stesso cristianesimo sia messo in discussione nella sua radice.

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