
Morfologia dell’immaginario (Arcipelago Edizioni 2009) di Gabriella Brusa-Zappellini è un’affascinante e complessa discesa nelle origini della rappresentazione, dell’immagine e del segno aniconico tracciato su pareti di grotte o su pietra. L’arte paleolitica è lontanissima nel tempo, ma proprio per questo ci attrae, perché l’umano ha avuto una origine, e quell’arte è vicina all’origine. Ma non così tanto, perché le ricerche scientifiche vanno allontanando sempre più nel tempo le prime tracce dell’ homo sapiens sapiens. Così, l’oggetto che questo libro mi ha fatto conoscere e che d’ora in avanti sarà sempre nella mia mente è di 80.000 anni fa. Una incisione il cui significato sarà sempre ipotetico (come quello dei bisonti di Altamira, del resto), ma che sicuramente è geometrica, e forse paleomatematica. Eccola qui:

L’arte paleolitica è di due tipi: figurativa e non figurativa, e i segni aniconici tracciati sulla roccia sono assai simili da una cultura all’altra, da un angolo del pianeta all’altro. Soccorre l’ipotesi sciamanica, sostenuta dalla neurologia che cataloga una tipologia di fosfeni e fenomeni entottici che sono invariabili, essendo legati alla struttura neurologica dell’ homo sapiens sapiens. Se tuttavia il serpente luminoso che si genera nell’emicrania con aura è uguale in un uomo contemporaneo ed in uno sciamano di 30.000 anni fa, è ben plausibile che questi gli attribuisse un significato consono alla cultura in cui viveva. Ed è qui il nodo problematico, visto che quella cultura è così lontana, del tutto irraggiungibile. Necessariamente, la Brusa-Zappellini mobilita un ampio arsenale di discipline, e giunge infine al problema della nascita della rappresentazione, ovvero a ciò che separa l’umano dall’animale. Non mi sembra strano che ciò avvenga a proposito dell’alimentazione degli ominidi che ad un certo punto vira dal vegetale al carneo, e dell’imporsi della caccia come attività fondamentale della specie. Predatore animale e predatore umano sono differenti, e non solo perché il secondo si serve di strumenti.
Il leopardo che uccide la gazzella e l’orso che fa strage di salmoni, dopo il pasto, pensano a digerire. Il primitivo che torna dalla caccia mette subito in atto complessi rituali di riparazione volti a risarcire la sua vittima (p. 175). Ma il punto è: perché l’umano pensa all’animale come vittima? Ciò è senz’altro legato all’attribuzione di intenzionalità, a sua volta legata alla rappresentazione. Di fatto, non mi risultano riti di espiazione della colpa di aver ucciso un animale a sangue freddo, gli umani debbono aver sempre avvertito una somiglianza di sé con gli animali il cui sangue esce caldo dalla ferita. Ma quel che non si trova nel testo in questione è la violenza tra umani, l’uccisione di un umano da parte di un altro umano. L’assenza di segni grafici di questo aspetto non significa affatto che non esistesse, sarebbe come dire che le attività femminili nel paleolitico non esistevano perché nelle caverne è rappresentata la caccia ma non la raccolta. Ritengo improbabile che la nostra specie abbia iniziato a percepire come vittime individui di altre specie prima che la vittima umana emergesse come tale, in tutta la sua potenza generatrice di significati.
Molto interessante.
Le cose che finora ho trovato più illuminanti sulle origini della rappresentazione sono nella grandiosa sintesi di A. Leroi-Gourhan, “Il gesto e la parola” (2 voll. Einaudi), scritto una cinquantina d’anni fa.
Un libro che non esito e definire essenziale.
caspita, questo tuo mi era sfuggito!
volevo cheiderti una cosa, Fabio, come mai la stagione venatoria che si è appena aperta non permette il suo svolgimento nelle giornate di martedì e di venerdì?
c’entrano qualcosa i pianeti?
e poi…ieri ho visto degli uccelli imbalsamati tra i quali il gallo forcello…splendide le sue sopracciglia rosse :-)
Niente pianeti! Le giornate di “silenzio venatorio” servono a diminuire un po’ la pressione sulla selvaggina.