Ho letto l’interessante Filosofie del populismo di Nicolao Merker (Laterza 2009). Eccone tre passaggi.
Si può individuare il populista dal suo ricorrere, più o meno accentuato, a strumenti conoscitivi poco affinati, refrattari alle distínzíoní e analisi, tali dunque da scegliere strade relativamente facili. Sono di solito due: o una affrettata generalizzazione concettuale, cioè un salto logico che tramuta concetti molto particolari in concetti di (falsa) ampiezza universale; o la convinzione che l’unica chiave per capire l’essenza del mondo è rappresentata dall’immediatezza dell’intuizione e della divinazione. (p. 6)
Le varianti delle dottrine populiste sono un labirinto, potenziato anche dai contesti storico-politici in cui le ideologie del populismo si trovano inserite. Ma hanno una componente morfologica di fondo. Consiste, al di là del contenuto specifico di dottrine e programmi, in una opzione mentale: ovvero nella convinzione che il vero strumento per affrontare e risolvere i problemi dell’universo mondo sia il fideismo, inteso nelle sue espressioni più varie. (p. 9)
Nei dialetti l’ideologia dei vecchi localismi traspare tuttora. Basta saperlo; e, usando l’idioma locale, non servirsene come di un veicolo di contenuti e atteggiamenti sociali vecchi, ritenuti ancora funzionali mentre sono anacronistici perché regressivi. Occorre badare ad altro: all’eventuale positivo piacere estetico di coltivare l’idioma, e alle funzioni di sodalità che nei rapporti circoscritti alla sfera privata esso assolve benissimo. Riguardo però ad altre sfere di vita collettiva, di maggiore risonanza e articolazione, il regredire a ferrovie linguistiche di scartamento ridotto spacciate per avveniristíci veicoli di validità generale, sarebbe un ideologismo evidente, un pretendere il futuro retrocedendo non solo alle patrie del passato, ma alle più minuscole tra di esse. Appartiene a quel novero la moda (di strumentale ideologismo) dei cartelli stradali e toponomastici in dialetto locale. La moltiplicazione dei cartelli potrebbe teoricamente andare all’infinito, e assicurare duraturo lavoro ai produttori di cartelli, perché praticamente non c’è valle e agglomerato anche piccolo che non esibisca una qualche sua variante di dialetto e di idioma. Sembra perciò conservare attualità quel che cent’anni addietro notava a proposito del rapporto lingua-dialetto un socialista della Seconda Internazionale, Karl Kautsky. Ovvero che «una valle montana stretta e isolata, lontana dalle strade di grande traffico e che produce quanto basta per gli abitanti, può sviluppare una lingua particolare e mantenerla per secoli; gli abitanti della regione di un grande fiume, che serve loro come strada commerciale, facilmente finiranno invece per formare una più estesa comunità linguistica» [Kautsky 1908/1973: 114]. Quando il processo di genesi di una comunità nazionale culturale si concretizza nella comparsa di una comune lingua scritta, usata e compresa dalle molteplici comunità locali, allora gli idiomi della valle e del bacino fluviale, insomma «le lingue parlate dai singoli popoli nell’ambito di questa nuova comunità nazionale regrediscono a semplici dialetti» [ivi: 118]. Era l’avvertenza, già un secolo fa, che, come tutti gli strumenti, anche quelli linguistici hanno funzionalità diversificate. E che, se non si adopera il sacrosanto criterio delle distinzioni, se dunque il localismo e lo strumentario suo (compreso quello linguistico) vengono confusi con ambiti e strumenti di funzionalità più generale, gli esiti anche qui diventano deleteri. (p. 178)