I confini dell’anima 3

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Oggi si leggono romanzi a milioni, si vedono film a centinaia, si guardano fotografie o si scrutano “documenti” a migliaia, e il risultato è che il pubblico è invaso e sommerso dalle immagini eteroclite di una “realtà” di cui non è più possibile sapere che cosa sia né che cosa significhi; tanto è vero che si finisce col dovervi appendere dei cartelli indicativi o dei commenti ideologici più o meno banali e più o meno improvvisati. Della società cui egli si rivolgeva con la sua narrazione, invece, il romanziere dell’Ottocento supponeva non soltanto che essa fosse disposta ad ascoltare senza pregiudizi il suo racconto, ma una vera e propria comunità di esperienze e di aspirazioni. Stendhal diceva che i suoi romanzi aspettavano il lettore del 1935; e anche se l’osservazione non fosse sardonica, sarebbe pur sempre per una “società” di happy few che egli avrebbe scritto; ma in realtà quello che glieli faceva scrivere, quei romanzi, era la fiducia nei pochi con cui egli si sentiva in comunità di spirito già nel 1830 e, ancora più sicuramente, lo stato degli animi e delle fortune nella società post-napoleonica.
C’è di più: c’è l’essenziale fiducia nella natura umana insita nel fatto stesso di scrivere romanzi. Comune ai grandi romanzieri del secolo scorso, anche a quelli in apparenza “pessimisti”, come potrebbero essere Flaubert o Dostoevskij, è il fatto di apprezzare al di sopra di tutto, nell’essere umano, la spontaneità dei sentimenti e delle azioni. Questo suppone una vera e propria fede nella fondamentale bontà e “innocenza” della “natura” se lasciata a se stessa, non deformata dalle costrizioni, dai pregiudizi, dalle idee false. E’ su una tal fede, prima che su questo o quel gruppo di persone, che è fondata la disposizione del romanziere, la sua fiducia che esista un’essenziale comunità di sentimenti e d’intenti fra lui e i suoi contemporanei.
Tale fiducia nella buona disposizione dell’eventuale lettore, considerato come proprio eguale allo stesso modo che, nella narrazione conviviale a viva voce, si considerano propri eguali i convitati che ascoltano, implica poi naturalmente la fiducia nel progresso morale della comunità e il desiderio di contribuirvi nel modo più diretto ed efficace possibile: mediante l’esempio figurato di casi reali. A differenza dell’argomentazione astratta o del sermone moralistico, tale procedimento è per sua natura non solo indiscutibile, ma contagiosamente persuasivo. E che cos’è questa fiducia nell’anima del lettore se non fiducia immediata e quasi ingenua nella forza della verità, della schiettezza, della bontà?

Non basta: in fondo al romanzo ottocentesco, implicita nel fatto stesso di scrivere romanzi, c’è l’intenzione di suscitare energie per la liberazione dell’individuo dalle “catene” in cui s’è avvinto, o l’hanno avvinto la Storia e la Società. In questo senso, tutti i romanzi dell’Ottocento partecipano della speranza utopica in una palingenesi del mondo umano, ne discutono la possibilità e, anche quando la negano, è per mantenere una stoica fede nella Ragione intesa nel senso di Voltaire e dei philosophes (come nel caso di Flaubert), oppure (come in Dostoevskij) per indicare in un cristianesimo “impossibile” la sola via di salvezza dal caos maligno che è l’anima dell’uomo abbandonato a se stesso.

Ma non è con gli argomenti che il romanziere vuol convincere, bensì con l’esempio immaginario. Egli, cioè, mira ad agire sulla sensibilità dei suoi contemporanei, non sulle loro idee. Le idee, anzi, gli appaiono di regola idées reçues, luoghi comuni, pregiudizi, ostacoli all’ideale di spontaneità che egli propone attraverso le vicende dei suoi personaggi. D’altra parte, è anche vero, anzi essenziale, che da Fielding a Stendhal, a Tolstoj, a Zola, e perfino a Joyce (nella misura in cui si può parlare di Joyce come di un romanziere), non c’è scrittore di romanzi che non proponga una sua morale; ma si tratta, appunto, di una morale – di un modo d’essere non di un sistema d’idee. La forza del romanziere consiste nell’appellarsi direttamente alla sensibilità del lettore, alla sua capacità di riconoscere immediatamente il “vero”; e la virulenza dei suoi “esempi” deriva da questo. Sensibilità vuoi dire “natura”, dato spontaneo comune a tutti dal quale dovrebbe procedere naturalmente un modo d’essere libero e schietto: la rivelazione intera dell’anima individuale.

Il romanzo, dice uno storico della letteratura francese, è una maniera di concepire l’uomo “alla ricerca della propria identità attraverso l’avventura della vita”.
“L’avventura della vita” è sinonimo di “occasioni quotidiane”, il seguito delle occasioni quotidiane significa la successione dei momenti nel tempo, e il fatto che l’uomo cerchi la propria identità nel tempo e attraverso il tempo significa che, quale che sia l’esito della ricerca (e può anche essere la rivelazione di un Dio trascendente), l’uomo è per cominciare concepito come un essere naturale, ossia tale quale appare momento per momento e giorno per giorno attraverso i casi della sua vita.
In questo consiste il “naturalismo” proprio del romanzo. Ma il naturalismo non è solo il metodo tipico del romanzo. Esso è anche, e soprattutto, la concezione della vita affermatasi in Europa a partire dalla rivolta contro il pensiero dogmatico e l’autorità teologale e monarchica per sboccare nell’abbandono del classicismo e, finalmente, nel rifiuto di ogni tradizione. Naturalismo, in questo senso, è sinonimo di umanismo; e il romanzo dell’Ottocento è forse la creazione più tipica dell’umanismo.
Nel romanzo, infatti, fedeltà alla natura così come si offre immediatamente alla percezione esterna e a quella interna significa in sostanza convinzione che il vero destino dell’individuo e i confini propri della sua anima si manifestano nelle circostanze della sua esistenza in mezzo agli altri e attraverso il fascino del mondo sensibile. Anzi, la rivelazione dell’anima individuale nel romanzo fa tutt’uno con l’esperienza del godimento sensibile e, più profondamente, della gioia. La temerità briosa da cui sono mossi i personaggi di Stendhal – il loro “egotismo” – non è, in questo senso, molto lontana dal sentimento di pienezza che coglie i personaggi di Tolstoj quando scocca in loro la scintilla del contatto con la “vita vera”. La verità, nell’esperienza romanzesca come nella visione naturalista, fa tutt’uno con la gioia, e tutto ciò che contrista, opprime o reprime nell’individuo la gioia è falso e maligno. Nella gioia, nella felicità, nell’offrirsi generosamente alla vita sta il segreto dell’esistenza: lì, in quella pienezza sostanziosa e attuale, sono la verità e il bene.

“La Storia si sviluppa, l’Arte sta ferma” dice E.M. Forster in Aspetti del romanzo.
Ma il romanzo è una storia, e implica che l’individuo e la sua vita interiore mutino col mutare delle circostanze, che la sua vita sia una lotta con le circostanze e che sia destinata a essere vittoriosa, o almeno che la speranza in un esito vittorioso sia fondata; e che, comunque, a tale lotta in nome della “schietta natura”, il romanziere inciti il lettore non tanto intenzionalmente quanto per il fatto stesso di raccontare appunto la storia di una tale lotta.
Secondo E.M. Forster, i due criteri di giudizio dei “risultati” ottenuti dal romanziere sono: a) “il cuore umano” e b) il “rapporto da uomo a uomo”. Lo scrittore spiega: “Il banco di prova finale d’un romanzo sarà l’affetto che proviamo per esso, allo stesso modo che questo è il banco di prova dei nostri amici e di tutto ciò che non possiamo definire… La qualità del romanzo, di essere intensamente, soffocantemente umano, non è evitabile; il romanzo è fradicio d’umanità… Possiamo odiare l’umanità, ma se la esorcizziamo, o anche semplicemente la purifichiamo, subito il romanzo avvizzisce, e non ce ne avanza che poco più di un mazzetto di parole”. Il senso del naturalismo (e dell’umanismo romanzesco) è espresso qui con rara semplicità e finezza. Sicché, dunque, l’individuo così com’è, come lo si trova in natura, in una qualsivoglia condizione della società umana da una parte e, dall’altra, i rapporti fra individui, il legame sociale, le forme dell’aristotelica philìa, sono i dati fondamentali del romanzo. Questo già implica adesione all’idea principale di Rousseau: “L’uomo è buono e potrebbe essere felice, la società lo fa cattivo e infelice”. E l’adesione a una tale idea, mentre è assolutamente essenziale al romanzo “classico”, cioè ottocentesco, limita singolarmente la visuale del romanziere. Mentre, infatti, l’esplorazione dei confini dell’anima si trova ristretta in realtà all’esplorazione delle possibilità per l’individuo di essere felice e libero a partire da una data condizione di cose, l’orizzonte intellettuale del romanziere risulta per parte sua limitato alle questioni di cui si crede che possono essere risolte, cioè alle questioni morali e di comportamento.

Quando il romanziere oltrepassa questo limite, come accade a Tolstoj già in Guerra e pace, è sulla via di oltrepassare il romanzo stesso per andare verso problemi morali e metafisici considerati in sé e per sé, senza riguardo alla questione della felicità individuale, né soprattutto all’individuo “così com’è dato in natura”. E rimanendo al di qua di questo limite, all’interno della dimensione temporale, della psicologia, del quotidiano, che il romanziere raggiunge i punti di massima perfezione. Ma d’altro canto non c’è, da Dickens a Balzac a Dostoevskij a Tolstoj, romanziere veramente significativo il quale non tenda a trasgredire il limite per sollevare questioni sociali, morali e intellettuali che violano per loro propria natura le leggi dello spazio narrativo, in quanto non riescono a integrarsi né con il moto interiore – o “psicologia” – dei personaggi, né con quello esteriore della vicenda. Ciò semplicemente perché un romanzo di qualche respiro non si può mai limitare alla narrazione di casi privati, ma investe necessariamente la vita di una società, con tutte le questioni che essa può sollevare per l’individuo. Tipico fra tutti il caso di Tolstoj, il quale, in Guerra e pace, si trova costretto a svolgere in forma di riflessioni polemiche e di considerazioni in apparenza marginali quello che in realtà è il tema stesso del romanzo: la negazione della Storia.
Sicché si può dire che le questioni morali, i ragionamenti, le diatribe dislocano la struttura del romanzo e spingono a dubitare della sua validità come mezzo di esplorazione dei rapporti fra l’uomo e il mondo, ma che d’altra parte un romanziere il quale eviti di trattare le questioni implicite nella materia di cui tratta e nel mondo di cui narra per limitarsi al racconto di vicende private è sospetto di frivolezza.
Questo è un fatto che E.M. Forster esprime dicendo: “La vita quotidiana, quale che possa essere nella realtà, in pratica risulta di due vite: la vita nel tempo e la vita secondo i valori degli avvenimenti… Ciò che il racconto fa è di narrare la vita nel tempo e… anche secondo quelli che abbiamo chiamato i valori“.

Qui sta il paradosso intrinseco del romanzo, qui la sua difficoltà, e qui anche il suo punto critico, nel momento in cui la questione dei “valori” non è più concepita come puramente incidentale e il romanziere la solleva non più “in immagine”, ma in realtà (come accadde esemplarmente a Tolstoj), uscendo per ciò stesso dallo spazio del romanzo. C’è da aggiungere che questo accade quando, invece di sentirsi legato da fiducia e da speranza alla società di cui tratta e in cui vive, lo scrittore senta di non poter più comunicare con essa per via d’esempi “finti”, ma di dovere o farsi predicatore e agitatore, oppure ritirarsi in solitudine a meditare, cioè diventare “santo” o “filosofo” nel senso antico (e ormai dimenticato) della parola.

C’è un’altra via, ed è quella di continuare il romanzo in malafede, facendone quello che esso non è mai stato né può mai essere: un esercizio formale. E’ la via di molti contemporanei: “La narrativa – osserva ancora E.M. Forster – basta liberarla davvero dal tempo per non farle più esprimere assolutamente nulla”. Questo, secondo lo scrittore inglese, è ciò che faceva già Gertrude Stein; ed è certamente quello che fanno attualmente i “nuovi” romanzieri, trasformando il romanzo da storia che si svolge nel tempo in descrizione più o meno puntigliosa e complicata.
“Se Dio potesse narrare la storia dell’Universo – afferma da parte sua E.M. Forster – l’Universo diventerebbe romanzesco”. Ma è proprio vero, questo? O non bisogna piuttosto dire che l’idea di Storia e quella di Dio si negano reciprocamente, e cioè che se Dio potesse narrare la storia dell’Universo, ciò significherebbe che egli non è l’autore del creato, ma uno dei personaggi della sua propria storia, come appunto il romanziere? E, d’altra parte, se l’Universo potesse diventare romanzesco, ciò vorrebbe dire che esso avrebbe in sé il proprio principio creatore, cioè consisterebbe interamente nella serie degli eventi successivi che l’hanno costituito. Ma gli eventi che l’avrebbero costituito sarebbero allora avvenuti completamente a caso, senza l’intervento di alcun “autore” particolare. Diventerebbe allora dubbio che l’Universo potesse avere una storia, cioè uno sviluppo coerente retto da rapporti decifrabili di causa ed effetto; esso apparirebbe invece come un seguito di eventi discontinui retti da una legge inconoscibile. Dio, allora, vi farebbe ritorno, ma non come “romanziere”: come potere arcano e oscurissimo.

Il senso di questo discorso a prima vista bislacco sta nel fatto che il romanzo è uno spazio chiaro e che promette chiarezza: esso, cioè, mostra sempre, colto sul vivo in esseri vivi “come noi”, il “meccanismo” di una data situazione della società e del mondo. Il personaggio di romanzo è costruito secondo la forma che hanno i rapporti quotidiani nella società esistente, secondo la struttura, le norme, le credenze di tale società e secondo l’esperienza che di queste ha il romanziere. Nel romanzo, l’enigma dell’universo non è presente che nello sfondo, e le sue vicende non sono governate da nessun Dio, anche quando Dio è (o vuol essere) uno dei personaggi, come per esempio nei Promessi sposi. Ciò che importa è l’individuum ineffabile. Per quanto riguarda questo, ogni romanzo non è né può esser altro, in fin dei conti, che l’affermazione diversamente reiterata che l’individuo è in verità “ineffabile”, ha un pregio inestimabile nel bene come nel male, e non è materia di scienza certa. In questo senso, i personaggi di Dostoevskij non sono né più oscuri né più complicati di quelli di Stendhal o di Tolstoj, ma semplicemente altri, un aspetto diverso della medesima umanità. In altri termini, l’universo del romanzo è un universo interamente positivo e contingente, materiato di casi singoli, di situazioni date, di vicende particolari.
E.M. Forster tocca il fondo più segreto del romanzo quando osserva che questa forma – non forma permette di cogliere “la vita di cui non appaiono prove esterne di nessun genere”; dunque, si dovrebbe concludere, di toccare veramente i confini dell’anima. Ma il fatto è che di questa intimità, di questa “vita di cui non appaiono prove di nessun genere”, il romanziere è padrone assoluto; o meglio, ne è padrona assoluta la sua capacità di immaginare il verosimile. E su questo terreno che si esercita la sua magia. Purché egli sappia creare un “simile” di naturalezza e di verosimiglianza, ha vinto: la suggestione romanzesca è creata, non controllabile da “prove di nessun genere”, lasciata unicamente all’evidenza interna, all’intuizione, alla simpatia.

All’opposto dell’idea esposta da Aristotele, secondo cui “ogni nostro stato di felicità o di infelicità prende la forma di un’azione”, il romanzo, essendo fondato sulla sensibilità, finisce naturalmente nell’inazione e nell’incontrollabile: è tutto affare di probabilità e di verosimiglianza. Infatti, secondo Forster, esso ci fa conoscere la felicità e l’infelicità dell’individuo in quanto non diventano azione; ed è questo, si può aggiungere, che lo distingue dal dramma, il quale ammette solo ciò che si esprime e si prova mediante azioni.
Al lettore di romanzi, invece, importa solo la credibilità, ciò che è credibile per lui da solo. Accade poi al buon romanziere che le sue invenzioni risultino credibili per un gran numero di lettori singoli. Questo perché la credibilità implica alla fine un certo accordo iniziale col mondo nel suo insieme – un certo realismo – e la capacità di far sboccare questo accordo in una visione coerente del mondo umano. Ma rimane che il romanzo, genere letterario realistico per natura, è anche quello che, al tempo stesso, mostra “una vita di cui non appaiono prove esterne di nessun genere” e delimita nel modo più obbiettivo possibile i confini dell’anima. Un paradosso evidente.

Di fronte alla singolarità e positività dei casi romanzeschi, alla loro indipendenza da ogni termine fisso all’infuori della “natura”, ossia del fatto che “le cose stanno così e non altrimenti”, la domanda più semplice che ci si può fare è: “Perché descrivere ciò che ci sta attorno? La realtà minuta, l’individuo nella dimensione del quotidiano sono forse più veri” degli eventi straordinari, delle cose lontane nello spazio e nel tempo, delle imprese eroiche, più interessanti delle invenzioni favolose e del mondo dei miti?”.
No, evidentemente la ragione è un’altra. La realtà minuta e attuale non è che sia più vera: è la sola che ci sia data, vale a dire la sola in cui sia possibile credere, quindi la sola che importa. E nel presente che l’individuo vive, e non ci è dato altro tempo né spazio all’infuori del presente. Ma, soprattutto, non ci è dato alcun altro oggetto significante, alcun’altra realtà spirituale cui possiamo affidarci. Il romanziere descrive l’uomo nella dimensione del quotidiano perché così l’uomo gli è dato in natura. Ma il fatto stesso che l’uomo gli sia dato soltanto nella minuzia fugace del presente comporta, nel romanziere, l’intenzione di agire sul quotidiano, di modificare il modo di sentire e pensare dei suoi contemporanei al fine di aiutarli a trovare o ritrovare la verità della natura. Non è possibile, infatti, considerare l’esistenza nel tempo come la sola realtà senza esser portati a reagirvi con energia e ad agire per modificarla. Questo, per dirla con Joyce, è l'”impulso cinetico” cui obbedisce necessariamente il romanziere.

Altrimenti detto: il romanzo è realista perché è fondato sul mito della realtà, sulla realtà come mito da inseguire, dato da modificare, situazione da trasformare e, alla fine, palingenesi da operare. Di conseguenza, non c’è romanzo senza la credenza in una realtà umana suscettibile di trasformazione e di palingenesi. Questo è, al tempo stesso, il mito dell'”evoluzione creatrice” e dell’umanismo. Di conseguenza, quella che oggi si chiama “crisi del romanzo” è, in realtà, la crisi di tale credenza.
La quale credenza, a dir vero, trova il suo limite in un fatto molto semplice e categorico: la morte. Nella visione naturalistica e umanista, la morte dell’individuo rimane un fatto o troppo facilmente scontato appellandosi ad argomenti come il ritmo biologico e la poca importanza del singolo di fronte all’evoluzione della specie, oppure senza risposta. Nel primo caso, si ha una specie di stoicismo, che è stata la morale dell’honnête homme europeo dal Rinascimento in poi. Nel secondo caso, quello della non-risposta, si va logicamente verso una franca accettazione dell’assurdità di un’esistenza individuale che da una parte si pretende assolutamente importante, e anzi sola realtà che conti, mentre dall’altra appare del tutto insignificante, condannata com’è a svanire nel nulla. Allora, l’esistenza tutta – la realtà tutta diventa irreale in un senso molto più radicale della shakespeariana “storia narrata da un idiota”: diventa ormai impossibile distinguere fra reale e irreale non già in teoria, ma quanto alla consistenza e congruenza di questa vita che ci è data per finire totalmente e di questo mondo che ci appare per sparire continuamente nel tempo passato, nel ricordo, nella continua morte.
Questo è un pensiero che ferma il tempo. E non è tanto il fatto della morte a fermarlo: l’individuo può comunque accettare la propria morte, o subirla. Il tempo si ferma perché la morte annulla ogni significato e valore se, come irrefutabilmente sembra, l’esistenza consiste di giorni e di momenti, e se l’individuo – l’ego, noi uno per uno – è il solo fatto che dia all’esistenza una sembianza d’unità.

Realtà significa presenza delle cose, degli esseri, del mondo. Quale che sia il destino dell’individuo, e quale che sia anche il significato che l’individuo scorge nell’esistenza, tale presenza rimane innegabile. Ma qual è il suo significato? Deve forse l’individuo accettarla remissivo, piegandosi a riconoscere in essa le potenze supreme del “divino”? O deve invece contrastarla, inasprendo la sua opposizione alla natura?
Se non esiste che il reale, ossia l’insieme degli oggetti, il seguito dei giorni e il suo esito finale, allora il fatto della morte inerente in ogni momento del tempo non lascia sussistere la realtà di alcuna cosa e di alcun momento, regnando su tutto come il solo fatto inconfutabilmente reale; e non c’è nulla, nessuna realtà, per quanto corposa, che non sia resa equivalente al sogno, al ricordo, all’illusione. Non c’è neppure nessun pensiero vero, naturalmente, se non c’è in qualche punto, fuori dall’ordine dei fatti, un qualcosa – Dio o Destino – che renda stabile la distinzione fra reale e irreale, vero e falso.
A questo punto, naturalmente, non solo il romanzo, ma ogni forma d’arte diventa impossibile. O, per meglio dire, la questione “che cosa è l’arte?” s’impone in maniera radicale. Ma, al tempo stesso, stranamente, i “confini dell’anima” si allontanano all’infinito, e l’anima stessa ritrova una libertà non conosciuta prima.

Nicola Chiaromonte da Il tarlo della coscienza , il Mulino, Bologna 1992

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